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Spezzano, Modena, Italy
Inguaribilmente energetica, e contagiosa.

27 agosto, 2012

THIS IS THE FIRST DAY OF MY LIFE

 
Quel venerdì, mi sono svegliata con l'assoluta certezza che stava cominciando.
Non so spiegare per quale motivo: erano giorni che mi ascoltavo, analizzavo, scrutavo, per capire i segnali del mio corpo. E non succedeva nulla, mentre intorno tutti quanti mi chiedevano se stava succedendo qualcosa.
Invece, quel venerdì, mi sono svegliata sapendo che stava cominciando.

Ero molto tranquilla, apparentemente, e lucida. Mi sono incaponita sul pensiero che mi dovevo depilare, e l'ho fatto. Poi ho svegliato l'Omone, con assoluta calma e leggerezza. A metà strada verso l'ospedale la metamorfosi era già avvenuta, e lanciavo terribili anatemi agli automobilisti che ci precedevano troppo lentamente, augurandomi che si incenerissero, o che incappassero in qualche catastrofe biblica: e l'Omone pareva un po' scombussolato da questa perdita di controllo. Ma, per non sbagliare, guidava in maniera sempre più sportiva. Non ho varcato la porta del pronto soccorso sulle mie gambe: mi ha portato di peso l'Omone. In reparto non mi hanno fatto fare attesa: bastava guardarmi in faccia. E sono entrata in sala parto.

La stanza si chiamava 'Sala Venere'. Un nome molto rassicurante, come l'ambiente al suo interno: luce soffusa. Ordine e pulito. Le sale parto non serbano traccia di tutto il dolore che vi transita, così come gli occhi delle ostetriche. Fausta mi prende quando sono già fuori di me. E' molto delicata, ma anche energica, e categorica. Mi dice: “Non spingere. Non ancora. Lascia che sia lui, a trovare la strada: tu dovrai lavorare dopo!”. Ma è più forte di me. La contrazione è preceduta da un'ondata, e so che non potrò fare nulla per influire in qualche modo sul suo percorso.

Non so se ci siano parole giuste, per descrivere un parto. Anzi, so proprio che non ce ne sono: tutto ciò che ricordo, e che trascrivo, non può che essere un'incerta approssimazione. Perché non si può avere la coscienza della parola, quando si perde anche la percezione di sé.

Vedo attorno a me le sagome di quelli che si avvicendano, occupandosi del mio travaglio. Cinzia, con i suoi occhi chiari, ed i bastoncini di incenso. Matteo, che tenta di arginare il dolore con l'agopuntura. E l'Omone. Sempre lì, sempre al mio fianco. Che sia spossato sul pavimento del bagno, che sia con le mani sulla mia schiena, per scaldare il fulcro del male che si intensifica, o impotente sulla poltrona, guardando questa tempesta che mi sta sconquassando dal di dentro. E la Sala Venere non è più così ovattata: diventa sangue, feci, umori, e urla. Urla, per portare all'esterno un dolore che non può avere un suono. Urla che sente anche mia madre, da fuori: quale pena più forte ci può essere di una madre che sente la figlia vivere quello che già in prima persona ha passato per metterla al mondo?

Poi il silenzio. Ma non è il silenzio della pace. E' il silenzio della battaglia che si concentra tutta all'interno: è peggio, perché non si capisce cosa stia succedendo. Io sono aggrappata con entrambe le mie mani, ma anche con tutta la forza che vado a pescare nei meandri della mia volontà: incanalo tutto quello che ho a disposizione, in quei pochi centimetri, ma non è mai abbastanza. Sono una serie di bordate tremende, ravvicinate che mi lasciano incredula, a bocca spalancata, e con gli occhi interrogativi verso tutti. Nelle pause chiudo gli occhi, pare anche che riesca ad addormentarmi. Sussurro all'Omone che lo amo. Tanto. E vedo che la gente davanti a me aumenta, accendono una luce verso l'interno delle mie gambe: ora somiglia più ad un ospedale, più di prima.

Sento PRECISAMENTE l'attimo in cui prima la pancia era piena, poi non era più piena.
Sento un singulto, e un pianto. Sento lui.

La gente continua ad affannarsi attorno a me, ma io non me ne curo. Il dolore non passa, ma non sono più ondate che mi travolgono: il dolore mi trapassa, come se fossi trasparente. Arriva la dottoressa, e ha un bozzolo di lenzuola tra le mani e me lo appoggia sul petto ancora nudo. Io abbasso con un dito la stoffa. Vedo un viso pieno di pieghe. Vedo una mano. Avvicino il dito, e la mano afferra il mio dito.

Ecco.

In quel momento, invece, ho l'assoluta certezza che la mia vita, da ora in poi, sarà tutta per lui.
E il dolore ha lasciato il mio corpo. O invece era l'anestesia. Non saprei: so che il bozzolo, dopo, è passato in braccio all'Omone, e sembrava perdersi nello spazio di quel petto enorme. E li ho amati, ancora di più: la versione maiuscola, e la versione minuscola.

Che sapore ha, tutto questo?
Il sapore del latte.
Latte che arriva da me. Da tutto il casino che è successo in quella sala parto, e che dopo è stato richiuso, dimenticato, ripulito; da sensazioni buone e belle e care.
Sigillato con quella stretta del mio dito, che ha portato via tutto quello che ho vissuto fino a questo momento. E' nato lui. E sono nata, ancora, anche io.