Molti anni fa, conoscevo questo ragazzo che giocava a rugby.
Quelli della ballotta lo prendevano per il culo, per questa sua passione: "Ma cosa fai, giandone?!". Non si sa, da dove arrivi questa parola in modenese: e non si sa perché descriva un ragazzo alto come una pertica, magro magro, sgraziato e un po' perso.
Non era proprio perso, però non riusciva a spiegare il perchè preferisse la palla ovale e le sue regole strambe, piuttosto che quella tonda e le discussione condivise nei bar di ogni angolo di strada.
Il ragazzo continuava ad allenarsi, e diventava sempre meno magro, e padroneggiava sempre meglio i suoi movimenti. Quelli della ballotta non lo prendevano più per il culo, ma continuavano a non capire.
E lui aveva smesso di parlare di rugby.
A parte una sera, in pronto soccorso.
Ci ritroviamo con un dito e una testa rotti: dito suo e testa mia. E finalmente parla: un fiume in piena, anche se ancora non so che si chiama rugby.
Quando è cominciata la mia avventura con il rugby femminile, lui è stata una delle prime persone ad impararlo.
L'altro giorno, leggendo le notizie sulla giornata di Super Ten, ho letto il suo nome.
Ero felice, e commossa.
Sono andata a vederlo: avevo dietro tutti i Miclas che ruggivano, ma non sono riuscita a fare neanche un coretto timido: troppo emozionata!
Era una di quelle partite dove si levano ampie nuvole di vapore dalle mischie, e il freddo sugli spalti fa un contrasto pazzesco con le gambe scoperte dei giocatori, col sudore e la fatica.
Durante il terzo tempo mangiavamo grandi panini alla Luganega, e birra nell'altra mano.
Mi è venuto a prendere in mezzo a quella marea di felpe e giacche giallonere: "Vieni, Lara: ti presento mio fratello!".
Aveva sul viso i lividi della seconda linea, quelli sulle tempie.
E gli ho detto: "Adesso ho capito!".
E sorridevamo come due bimbi.