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La mia foto
Spezzano, Modena, Italy
Inguaribilmente energetica, e contagiosa.

27 agosto, 2012

THIS IS THE FIRST DAY OF MY LIFE

 
Quel venerdì, mi sono svegliata con l'assoluta certezza che stava cominciando.
Non so spiegare per quale motivo: erano giorni che mi ascoltavo, analizzavo, scrutavo, per capire i segnali del mio corpo. E non succedeva nulla, mentre intorno tutti quanti mi chiedevano se stava succedendo qualcosa.
Invece, quel venerdì, mi sono svegliata sapendo che stava cominciando.

Ero molto tranquilla, apparentemente, e lucida. Mi sono incaponita sul pensiero che mi dovevo depilare, e l'ho fatto. Poi ho svegliato l'Omone, con assoluta calma e leggerezza. A metà strada verso l'ospedale la metamorfosi era già avvenuta, e lanciavo terribili anatemi agli automobilisti che ci precedevano troppo lentamente, augurandomi che si incenerissero, o che incappassero in qualche catastrofe biblica: e l'Omone pareva un po' scombussolato da questa perdita di controllo. Ma, per non sbagliare, guidava in maniera sempre più sportiva. Non ho varcato la porta del pronto soccorso sulle mie gambe: mi ha portato di peso l'Omone. In reparto non mi hanno fatto fare attesa: bastava guardarmi in faccia. E sono entrata in sala parto.

La stanza si chiamava 'Sala Venere'. Un nome molto rassicurante, come l'ambiente al suo interno: luce soffusa. Ordine e pulito. Le sale parto non serbano traccia di tutto il dolore che vi transita, così come gli occhi delle ostetriche. Fausta mi prende quando sono già fuori di me. E' molto delicata, ma anche energica, e categorica. Mi dice: “Non spingere. Non ancora. Lascia che sia lui, a trovare la strada: tu dovrai lavorare dopo!”. Ma è più forte di me. La contrazione è preceduta da un'ondata, e so che non potrò fare nulla per influire in qualche modo sul suo percorso.

Non so se ci siano parole giuste, per descrivere un parto. Anzi, so proprio che non ce ne sono: tutto ciò che ricordo, e che trascrivo, non può che essere un'incerta approssimazione. Perché non si può avere la coscienza della parola, quando si perde anche la percezione di sé.

Vedo attorno a me le sagome di quelli che si avvicendano, occupandosi del mio travaglio. Cinzia, con i suoi occhi chiari, ed i bastoncini di incenso. Matteo, che tenta di arginare il dolore con l'agopuntura. E l'Omone. Sempre lì, sempre al mio fianco. Che sia spossato sul pavimento del bagno, che sia con le mani sulla mia schiena, per scaldare il fulcro del male che si intensifica, o impotente sulla poltrona, guardando questa tempesta che mi sta sconquassando dal di dentro. E la Sala Venere non è più così ovattata: diventa sangue, feci, umori, e urla. Urla, per portare all'esterno un dolore che non può avere un suono. Urla che sente anche mia madre, da fuori: quale pena più forte ci può essere di una madre che sente la figlia vivere quello che già in prima persona ha passato per metterla al mondo?

Poi il silenzio. Ma non è il silenzio della pace. E' il silenzio della battaglia che si concentra tutta all'interno: è peggio, perché non si capisce cosa stia succedendo. Io sono aggrappata con entrambe le mie mani, ma anche con tutta la forza che vado a pescare nei meandri della mia volontà: incanalo tutto quello che ho a disposizione, in quei pochi centimetri, ma non è mai abbastanza. Sono una serie di bordate tremende, ravvicinate che mi lasciano incredula, a bocca spalancata, e con gli occhi interrogativi verso tutti. Nelle pause chiudo gli occhi, pare anche che riesca ad addormentarmi. Sussurro all'Omone che lo amo. Tanto. E vedo che la gente davanti a me aumenta, accendono una luce verso l'interno delle mie gambe: ora somiglia più ad un ospedale, più di prima.

Sento PRECISAMENTE l'attimo in cui prima la pancia era piena, poi non era più piena.
Sento un singulto, e un pianto. Sento lui.

La gente continua ad affannarsi attorno a me, ma io non me ne curo. Il dolore non passa, ma non sono più ondate che mi travolgono: il dolore mi trapassa, come se fossi trasparente. Arriva la dottoressa, e ha un bozzolo di lenzuola tra le mani e me lo appoggia sul petto ancora nudo. Io abbasso con un dito la stoffa. Vedo un viso pieno di pieghe. Vedo una mano. Avvicino il dito, e la mano afferra il mio dito.

Ecco.

In quel momento, invece, ho l'assoluta certezza che la mia vita, da ora in poi, sarà tutta per lui.
E il dolore ha lasciato il mio corpo. O invece era l'anestesia. Non saprei: so che il bozzolo, dopo, è passato in braccio all'Omone, e sembrava perdersi nello spazio di quel petto enorme. E li ho amati, ancora di più: la versione maiuscola, e la versione minuscola.

Che sapore ha, tutto questo?
Il sapore del latte.
Latte che arriva da me. Da tutto il casino che è successo in quella sala parto, e che dopo è stato richiuso, dimenticato, ripulito; da sensazioni buone e belle e care.
Sigillato con quella stretta del mio dito, che ha portato via tutto quello che ho vissuto fino a questo momento. E' nato lui. E sono nata, ancora, anche io.

20 luglio, 2012


NO WAY SIS
La serata cominciava dalla radio. Due ore di diretta, dalle 18.00 alle 20.00.
Io e il Fratellone, ai microfoni. Il suo era quello fisso, ancorato alla consolle. Il mio era quello mobile. Come me, che giravo come un prillo e non tacevo mai, e facevo un casino boia, e Gianca era bravo, a tener dietro al casino e a dare una parvenza di professionalità a tutto l'insieme. Andavamo lisci come l'olio, con collegamenti di idee al volo, che capivamo prima di dirli. Che a volte capivamo dopo averli detti. A volte, abbassava il volume dei microfoni, e me ne diceva tante, me ne diceva tante, che una volta il mio moroso ha sentito e a momenti gli tirava un pugno. Non so perché, visto che io non me l'ero presa minimamente.
Quella sera Gianca era un po' giù di morale, e io, per pareggiare i conti, facevo il doppio del casino. Tanto ho insistito che, alla fine, sospirando, mi ha detto che sarebbe uscito anche quel sabato. E non c'era bisogno di prepararsi, o imbellettarsi. Maglietta, pantalonacci militari. Maglietta di ricambio per il dopo. Perché sarei uscita dall'Oasis così sudata da rischiare un malanno. Mi domando ancora il motivo per cui le adolescenti, ora, passino ore e ore di trucco e preparazione per andare in discoteca. Prima abbiamo fatto tappa al Temple Bar, da Dudu, praticamente come ogni sabato prima dell'Oasis. E lì c'era il Gabibbo al bancone. Che riposi in pace. Ho rischiato di giocarmelo, Gianca, quella sera. Perché si erano intrippati, lui e il Gabibbo, a suonare e a bere birra. Ho dovuto triplicare il casino, a questo punto, per riuscire a farmi sentire. Ad impormi, e a convincerlo a sradicarsi dal bancone e dal Gabibbo, per venire all'Oasis con me. Alla fine, sospirando, mi ha dato retta: non senza l'ultima raccomandazione, 'Lara, se si avvicina qualche donna, te cacciala via senza tanti complimenti, che stasera non ne ho mica voglia'. Ancora meglio, così ce la saremmo ballata insieme, tutta la sera. Tutto Vanni, Max, dallo ska all'elettro, e un immancabile puntata nel regno di Enzo, tra tutti quei pazzi che suonavano la chitarra all'aria.
Io non vedevo l'ora. Come ogni sabato. Come ogni volta che parte l'intro del tuo pezzo preferito. La Dani in biglietteria. Morris all'ingresso. La Francy Mora in attesa del primo pezzo che la ispirasse, che fossero i Depeche Mode, o i Cure. Poi tornava di nuovo seduta, sdegnosamente, al primo accenno di Smash Mouth. Per poi riattivarsi col brit pop "He lives in a house, a very big house in the country...".
Zanna mi intercetta appena entrata: "Lara, c'è una tizia che ti vuole conoscere". E' lì dalla consolle. "Ciao, io sono la Lara!", "Ciao, io mi chiamo Cristina!". Mi giro verso Gianca, per fare le educate presentazioni: e lo trovo così, a bocca aperta, con l'espressione del pesce bollito e la faccia da pirla! Parte un messaggio telepatico fortissimo, da quel cervello in tilt, senza emissione di alcun suono: "LARA-CHIAMALA-A-BERE-LARA-CHIAMALA-A-BERE-CAZZO!". E io: "Cristina, vuoi bere una birra con noi?". Ci facciamo largo tra la folla, e arriviamo al bancone grande, quello che fa da spartitraffico tra la sala principale e la roccaforte dei metallari. Giro di birra, e mi sento un filino di troppo: "Beh, io me ne vado a fare un giro!". Il giro in questione è proprio la circumnavigazione della pista da ballo: ingresso a destra, consolle sopraelevata, barettino di nicchia, i cessi, costeggiata della sala di Enzo, e il mega-bar centrale. Il tutto inframezzato da gradini e divanetti, sui quali pascolava la miglior genìa di gente che io abbia mai visto tutta insieme. A volte, le tappe della circumnavigazione portavano via un buon tre/quarti d'ora, per le chiacchiere, i saluti, le lumate sulle taccate dei dark/punk/metal/grunge esemplari, o sul livello di fuorezza di qualche animale da bar, già ampiamente oltre l'esplorazione dei territori conosciuti della propria mente.
Mi ricordo la Fabiola, che ballava tutta la sera roteando su se stessa, e tutti si domandavano come facesse a non stramazzare al suolo dopo i primi 50 giri. Mi ricordo Sergione, con la miscela adeguata di tequila sempre con sé, per non dover patire mal di testa il giorno dopo. Mi ricordo l'Erika, con tutti gli elasticini sulla testa, coi capelli conciati a mò di puntaspilli.. Ma ce n'era in ogni cantone, e su ogni divanetto si consumava un'epopea (a proposito: di divani così brutti non ne ho mai visti neanche al Condor!). E anche quella sera, la circumnavigazione è durata un tempo adeguato, e quando sono tornata al punto di partenza.. oibò, Gianca era ancora là con la Cri, e si stavano esplorando vicendevolmente. Io mi piazzo alle spalle della Cri, faccia a Gianca, e ballo il balletto della felicità, roteando i pugni in avanti con ampio movimento circolare. Gianca apre gli occhi proprio in quel momento, mi vede, e libera una mano il tempo sufficiente per mostrarmi un eloquente gesto di smammare, e alla velocità della luce.. Ma certo, Fratellone, che tra l'altro Max mi ha appena messo su i Prodigy! E via che si balla.
E dopo tanti anni siamo ancora qui che balliamo.. Io con questa pancia smisurata. Gianca con la sua bellissima moglie. Zanna, la Francy, Sergio che compie gli anni adesso. Morris. Enzo chissà dov'è finito. La Fabiola, Vanni, la Dany, Ghini. Non c'è più Max, e faccio ancora fatica a rendermene conto.
E neppure l'Oasis. L'Oasis. L'Oasis l'hanno tirato giù. E dove se ne andranno a ballare tutti i ragazzi, adesso? C'è troppa luce, in quei posti tutti tirati a lucido. Troppi neon. Troppi chupiti. Troppo trucco e poco sudore. Troppi taggamenti su Facebook, per dire io c'ero. Ma quando c'eravamo davvero non c'era bisogno di taggare. Tutto stampato qui, nella mente. Dopo quasi 20 anni.
Nonostante l'Oasis non ci sia più.

14 giugno, 2012

VINO E MIRRA

(Foto: Angelo Colonna)

"Fatti il segno della croce!".
Mia nonna è sempre stata molto rigorosa, in proposito.
Che si passasse davanti alla chiesa di Spezzano (o qualsiasi altra chiesa, ma di solito era quella di Spezzano) in bici, a piedi o in macchina, un rapido tocco fronte, petto, spalla sinistra e spalla destra era d'obbligo. Poi si poteva ricominciare a fare il diavolo a quattro, ma solo dopo la parentesi pia, come una tregua. Indiscutibile.
Chissà perché, poi..
Non le ho mai chiesto il motivo.
E non le ho mai chiesto perché aspettasse che mio nonno finisse di piantare i fagiolini nell'orto, concimando magari ampiamente il terreno e l'atmosfera circostante con grasse bestemmie, e dopo arrivasse lei, sui cavicchi di sostegno alle piantine giovani, e incrociasse degli altri bastoncini, sulla sommità, legandoli con lo spago.
Tante piccole croci, a propiziare una crescita miracolosa.
E ancora, la catenina presa per la cresima: era anche un oggetto insolitamente vezzoso, per essere stato scelto da mia nonna. Fatto con gli zirconi incastonati sull'argento. E' l'unico monile che indosso per una ragione ben precisa, che non sia puramente estetica.
Quando ho paura. Quando devo lottare. Quando non sono sicura.
Ieri sera mi è venuto in mente che non mi ricordavo cosa avesse bevuto Gesù prima della crocifissione.
Tiro fuori la mia vecchia Bibbia, che semina polvere ad ogni sfogliata di pagina, e leggo Matteo: a Gesù, prima di morire, sono offerte due cose da bere. L'ultima, che lui rifiuta, è una spugna imbevuta di acqua e aceto: l'aceto serviva per disinfettare l'acqua di dubbia purezza. In pratica, il soldato, per pietà, gli voleva offrire da bere la stessa cosa che beveva anche lui. 
A me, però, interessava la bevanda che Gesù aveva bevuto prima, appena arrivato al Golgota.
Matteo parla di vino e fiele, ma è probabile che si tratti soltando di un errore, o che genericamente Matteo volesse alludere al sapore amaro della mirra.

L'altro evangelista Marco parla di vino e mirra, più correttamente: si tratta di una bevanda antidolorifica, e dopante. E Gesù la beve.
Gesù si droga prima di essere crocefisso.

E' solo uno dei tanti messaggi rivoluzionari che arrivano da Gesù, e lo trovo di una bellezza sconvolgente.
"Ma che religione può usare come proprio simbolo uno strumento di tortura?".
Io non mi accodo a tutti quei predicatori zelanti che provano a farlo passare come un messaggio di amore: dio ci ha dato suo figlio, sacrificandolo, per far sì che tutti i nostri peccati fossero cancellati. Anzi, mangiate letteralmente la sua carne, e bevete il suo sangue, e tornerete puri.
Se ce la raccontassero per la prima volta, sembrerebbe una trama di un film horror scadente, in cui si narra la storia di una setta delirante, cannibale ed estremista.
Salvo poi trasfigurare la croce in un oggetto divino, innocuo, ben lontano dalla tortura e dalla morte: nella foto qui sopra, sono solo lenzuola immacolate, leggere, drappeggiate con eleganza. Gesù ha i capelli svolazzanti come una rockstar, e il sudario (pudicamente utilizzato come pareo per coprire una nudità scomoda) si allunga in ampie volute di gloria, per niente casuali o naturali.
Addirittura, i chiodi sono scomparsi.
Le braccia si levano a rendere grazie.
Ma non è così, purtroppo: l'ultimo grido è un urlo di disperazione, di dolore, di abbandono. E la croce è, e rimane, uno strumento di morte.
Perché la porto ancora addosso, allora?
Perché ogni volta che entro in chiesa (sempre più raramente), la mano intinta nell'acqua santa mi vola alla fronte, sterno e alle due spalle?
Perché l'ho pure attaccata alle mie spalle, nello studio nuovo, ormai scurito il legno dal tempo e il metallo ossidato dagli anni?
Perché Gesù, prima di morire, si droga.
Perché vuole evitare il dolore. Perché ha paura.
Perché è un uomo.
E' vero: dio mi ama. E lo devo cercare.
Ma non lo troverò in un dio rabbioso, che manda terremoti, o malattie, o figli handicappati, per punire i peccatori. Lo trovo sul mio petto.
Perché dio è un uomo, e una donna, come me. 
Io non sono un dio: ma ci si prova, a fare del nostro meglio.
Perché anche dio si droga. E vuole evitare il dolore. E ama le donne. E si incazza, cacciando i mercanti dal tempio. E piange quando muore un amico.
E muore.
Me lo ricordo tutte le volte che mi faccio il segno della croce.

29 maggio, 2012

QUALSIASI POSTO DOVE SI VA E' PIU' PERICOLOSO DI QUELLO DOVE SI ERA UN MINUTO PRIMA



Stamattina mi sono alzata presto.
Udienza alle 9.00 a Modena, per me, vuol dire levataccia all'alba.
Ma non tanto per la distanza: è il rito della preparazione, perché dal Giudice ci si va vestite bene, e pettinate, e truccate.
Mica come di solito, che sembro uno spaventapasseri..
Mi infilo nella Pallina, che ormai stenta a contenere me e il mio dolce pallone ovale che mi porto ovunque.
A buco su Radio Maria, che ormai è diventata la mia radio preferita (stamattina poi ha regalato: Don Livio parte con un memorabile "Per fortuna che c'è stato lo scandalo nel mondo dello sport, così i giornalisti si possono dividere tra i campi da calcio e San Pietro!").
Arrivo a Modena, sui pilastri solidi di cemento del parcheggio (Enzo) Ferrari.
Spengo Radio Maria, chiudo la Pallina, e inizia il balletto.
Sembra proprio un tip tap, laterale, con le mani annaspanti cercando di riposizionare l'equilibrio.
Rapido sguardo intorno: la vocina del buon senso in caso di allarme dice NO-ASCENSORE, e allora via dalle scale.
Ma si è già tutto fermato, anche se respiro solo quando vedo il cielo fuori.
Prendo la bicicletta, che mi tengono quelli del parcheggio in custodia, per andare verso il centro.
Lungo la via Emilia sembra un giorno di festa, perché tutti sono per strada.
Ma non ridono, non parlano. Solo si guardano intorno, con l'espressione un po' smarrita dalla paura.
Anche in tribunale sono tutti fuori.
Con una bella livellata di classe, di ceto e appartenenza, mischiati tutti: giudici, donne delle pulizie, avvocati, impiegate, ufficiali giudiziari.
Anche la Presidentessa del tribunale se ne vaga impettita, a braccetto con il Giudice tutelare, dispensando muti cenni di saluto alle due ali di popolo che si aprono al suo passaggio.
Passano i minuti.
Non succede niente.
E i primi si avventurano lungo i gradini di ingresso del tribunale: perché non sanno bene cosa fare. Devono magari depositare un atto urgente, e la scadenza del termine pare più pressante di un terremoto.
Ma non c'è nessuno dall'altra parte, per timbrare di aver ricevuto quell'atto.
E quindi stanno lì, sventolando quelle pagine inutili, in corridoi che rimbombano di silenzio.
Io vado verso la biblioteca: il Giudice è già lì, che sorride come se nulla fosse.
Tanto, dice, qualsiasi posto dove si va è più pericoloso di quello dove si era un minuto prima!
Mentre stiamo avviando la discussione sulla causa, i muri tremano di nuovo.
Un avvocato di Carpi prende la porta, senza tanti complimenti e senza chiedere con permesso!
Il Giudice guarda noi, e dice 'Se volete possiamo continuare, tanto io ero in Irpinia nell'80'!
Massì, qualsiasi posto dove si va è più pericoloso di quello dove si era un minuto prima.
Finiamo l'udienza, usciamo di nuovo.
E di nuovo la bicicletta.
E' così bello, questo sole, e fa contrasto con l'aria pesante che si respira a terra: aria di paura. Aria di attesa.
Tanto vale: decido di andare in piscina.
Così Leonardo, per un po', sarà sollevato dal peso mio, e di questa aria così densa.

28 maggio, 2012

AMO LA RADIO PERCHE' ARRIVA DALLA GENTE


La radio è diversa da tutto il resto, perché occorre immaginare.
Immaginare che ci siano le pareti foderate dalle copertine dei dischi, dal pavimento fino al soffitto.
Immaginare una ragazzina di vent'anni, con i capelli tagliati corti sulla fronte, e gli occhi sempre in movimento.
Immaginare una maglietta consumata di un concerto lontano, di un gruppo amato e sconosciuto.
Immaginare un microfono sospeso su una postazione comandi, come la plancia di una nave.
Immaginare l'odore di fumo e sudore, stratificato dagli anni.
Immaginare di isolare il resto del mondo, quando si infilano le cuffie, e provare la voce, per sentire come sarà sentita tra pochi secondi.
Immaginare l'adrenalina che corre, tutte le volte, mai uguale a quella dell'altra volta.
Immaginare tutte le persone dall'altra parte, collegate da una traccia invisibile, eppure sparpagliate in ogni angolo di paese, in macchina, a casa, in ogni dove.
Immaginare che tutto questo è solo immaginato, e non conta niente per tutte le persone dall'altra parte: conta solo per una ragazzina, che in quel momento soffia via i capelli dalla fronte, prende a due mani la plancia di comando, dà l'ultimo sguardo al tempo rimanente che scorre sul display.
Immaginare la fine del pezzo, l'istante di silenzio.
Immaginare una sigla.

21 maggio, 2012

CONTRO I TERREMOTI, NON GIOVANO NASCONDIGLI



Ve lo scrivo, nell'unico modo che conosco per poterlo raccontare.

Sabato notte io ero a casa da sola (l'Omone ha pensato bene di andare a Londra a vedere la finale di Heineken Cup).
Alle 4 mi son svegliata con la sensazione che ci fosse qualcosa di strano..
Subito, nel dormiveglia, davo la colpa al pupo, e dicevo: "Ammazza se tira calci, stanotte!".
Poi, ho capito che il pupo non c'entrava: ho aperto gli occhi e ho visto che TUTTA LA CASA STAVA TRABALLANDO!
Mi sono catapultata fuori dal letto, per uscire fuori, scalza..
I cani erano già all'aperto, ma non ululavano, non abbaiavano: giravano solo in tondo, come impazziti.
Si sentiva, nel silenzio della montagna, come un rombo di tuono, in lontananza, ma continuo...
Tutto è andato avanti per un'eternità, in realtà non era più di un minuto.
Poi si è fermata ogni cosa.
La casa di fronte (disabitata) aveva una crepa, che adesso la taglia trasversale per tutta la lunghezza, come una ferita.
I cani mi guardavano. Io guardavo la casa.
Mentre tremava tutto, ho pensato, lucidamente: "Bada te, mi tocca morire mentre lui è lontano..."; poi, passata la scossa, questo pensiero mi ha fatto ridere..
Ho aspettato sui gradini di casa, per un po'.
Poi non succedeva niente, e sono tornata dentro. Sul divano, che è proprio attaccato alla porta d'ingresso.
Alle 7, sono cominciati ad arrivare i messaggi...
"Tutto bene? Tu stai bene? E il bambino?".
Io, ancora intontita dalla levataccia brusca della notte, non capivo.
Poi ho acceso la televisione, verso le otto, e ho visto...
Sono andata giù verso la pianura, con la macchina, dai miei.
Brutta sensazione: non sentirsi a casa, neppure a casa.

28 marzo, 2012

GANDHI ERA UN AVVOCATO


Ricordo bene, la mia prima volta in tribunale.
Era una gita in terza elementare: la mia maestra Gaetana, la maestra piccola piccola dai capelli rossi e una permanente furiosa, aveva iniziato Giurisprudenza prima di dedicarsi all'insegnamento, e così ci siamo trovati a seguire un processo per omicidio colposo. Con gli occhi sgranati, e quei "grandi" dall'altra parte della balaustra, che portavano il grembiule nero come il nostro.
Il Pubblico Ministero aveva i capelli brizzolati e gli occhiali colorati, ed è rimasto in Procura a Modena per oltre 20 anni: proprio in tempo perché io facessi uno dei miei primi processi con lui. Gliel'ho confidato, alla fine della discussione, e lui sembrava sinceramente addolorato. "Ma come? Prima in gita alle elementari, poi ti ritrovo già avvocato?".
E' vero che già alle elementari avevo un'idea tutta mia, della giustizia: mi seccava parecchio vedere i bulletti da strapazzo che maltrattavano le bimbe, quelle piccoline, con le trecce sottili ed i maglioni pieni di pelucchi sui polsi esili.
Allora mettevo da parte il mio gnocchino avvolto nella carta oleosa del panettiere, quello farcito con il prosciutto cotto e la maionese (il mio preferito). Portavo il malcapitato sotto la scala che separava i due corridoi delle aule, lo rendevo inoffensivo immobilizzandogli mani e piedi scalcianti sotto la mia mole già imponente alle elementari, e gli davo una serie di scapaccioni sul testone spettinato. Lui cercava di divincolarsi, e i suoi amici che ridevano a crepapelle, lì protetti dalla scala, perché il disgraziato le stava prendendo da una femmina: ma non c'era via di scampo. Uscivo dal sottoscala solo leggermente arrossata sulle guance, e con un paio di ciuffi che scappavano fuori dal legaccio della treccia unica, sulla nuca. Senza scompormi più di tanto, tornavo al mio gnocchino da mangiare prima della fine della ricreazione, mentre la bimba dai polsi sottili, con gli occhi ancora gonfi per le lacrime appena asciugate, mi chiedeva se poteva uscire dall'aula, alla fine delle lezioni, prendendomi la mano.
Dopo la campanella, si usciva in fila a due a due, per poi sparpagliarci tra le braccia dei nostri genitori, ignari delle tragedie che si consumavano quotidianamente dentro quelle mura scolastiche.
Ora sono grande, e ho smesso di picchiare i bulletti da strapazzo.
Ma non sempre i peggiori stanno dentro le aule del tribunale!
Ieri stavo al telefono, con una perfetta sconosciuta che mi urlava nelle orecchie, e mi diceva che sono una prepotente e una maleducata. Avessi avuto un gnocchino al prosciutto, l'avrei messo da parte, da mangiare prima della fine della ricreazione. La violenza brutale che usciva dalla cornetta mi faceva venire voglia di portare la mia interlocutrice sotto le scale della scuola elementare. O forse era invece una bimba dai polsi esili, che approfittava della distanza per sfogare tutta la sua rabbia. Fatto sta che ha finito le parole, e dopo nulla più.
Tornando a casa, l'Omone, per scherzare, ha detto che il nostro bambino picchierà i bimbi più grandi.
E io: "Ma noo.. perché lo dovrebbe fare?"
Poi mi è venuto tutto in mente: la mia maestra piccolina, il sottoscala delle elementari, gli adulti in tribunale che litigavano con addosso il grembiule come il nostro..
Leo, magari un sottoscala non è la soluzione migliore. Ma ha il pregio di semplificare. Tu, ad ogni buon conto, non picchiare nessuno (se non se lo merita).

26 gennaio, 2012

CRONACHE DAL MONDO PICCOLO PICCOLO


Il primo libro che ho letto da piccola è "Virgola ed altri racconti".
Parla di un posto magico che si chiama "Primadiandargiù", una nuvola bianca e rosa dove stanno i prebambini: i prebambini imperversano tra una nuvoletta e l'altra, con il loro camicino color aria e un nastro alla caviglia cui è attaccato un campanellino, col numero ed il nome del prebambino.

"Primadiandargiù" è un posto pieno di Santi un po' svaniti, dove le aureole rimangono incollate alle dita dei legittimi proprietari (o in altre parti del corpo non adeguate) per colpa degli scherzi dei premonelli, e dove si va pochissimo a scuola, perché si festeggia sempre l'onomostico di qualche Santo. A “Primadiandargiù” si festeggiano anche i “Noncompleanni” e il “Momentogiusto”, che arriva di solito dopo nove “Nonmesi”, e tutti i lunedì, all'arrivo di San Calderone, i prebambini sfogliano gli album fotografici dei terrestri, alla ricerca di una mamma e di un papà.

Virgola sta troppo bene a Primadiandargiù, e non ha nessuna intenzione di scegliersi due genitori, perché le piace stare dove sta, e andare a spasso con il suo cagnolino, Putiferio, e ogni volta che sfoglia gli album di San Calderone trova sempre una scusa per ogni famiglia che vede: "Quel papà lì è troppo grasso... Che buffa 'sta mamma... Questi nonni non mi vanno perché hanno i baffi... Eh già, lì non vogliono cagnetti, ed allora il mio Putiferio dove lo lascio?...".

Ma un giorno, Virgola, si sente un po' diversa dal solito; le cose più divertenti non le danno più il gusto di prima. E' strano, ma sembra quasi un po' malinconica. Sente la mancanza di qualcosa che non ha. Chiede a San Calderone gli album di fotografie anche dei genitori di seconda classe, quelli che non ha mai neanche voluto sfogliare. E trova loro: un papà grande e grosso, che sembra burbero, ma ha un cuore d'oro. Una mamma che sorride tanto, e le piace la musica. Giocano ancora tutti e due con una palla ovale, anche se ormai sono un po' stagionati. Anche loro hanno dei cani: sono due cuccioli sfigatelli, salvati da due storie brutte brutte, che adesso fanno un baccano d'inferno per la contentezza. E hanno un gatto enorme, che ha le zampe più corte della pancia che gli sta crescendo.

Sono loro!