Informazioni personali

La mia foto
Spezzano, Modena, Italy
Inguaribilmente energetica, e contagiosa.

29 dicembre, 2010

There's a very fine line between being scared and concerned.
Since I don't like to say I'm scared I say I'm concerned.
BUT YOU KNOW WHAT?
I really might be a little bit scared.

02 dicembre, 2010

D'INVERNO IL SOLE STANCO A LETTO PRESTO SE NE VA

Sono già stivate tutte le scorte di legna, aggrappate al muro della stalla. E si sfaldano giorno per giorno, un secchio alla volta, per alimentare il fuoco del camino al piano di sopra.
Freddi i panni a contatto della pelle, quando siedo sulla panchina dello spogliatoio, e mi chiedo chi me lo fa fare. Quando le maglie non bastano mai. Quando le dita doloranti battono contro i bordi delle scarpe dure, e duro è il terreno ghiacciato sotto i tacchetti.
Zack guarda implorante, tremando tra le scapole e soffiando piccole nuvolette dalle nari: "Fammi entrare, ti prego". I piccoli cristalli scintillano sul bordo della finestra, e piccoli coni di luce e ghiaccio appesi alle grondaie.
Nel buio della notte, un brivido fa galleggiare un momento di veglia, e sento il naso freddo, e sento respirare tranquillo un abbraccio caldo proprio qui a fianco. Torno nel sonno, torno nel buio, affondando il naso in quell'odore buono e in quel respiro così pacato.
Ci vuole proprio qualcosa di caldo.
Una bella pentolata di fagioli, lasciati a bagno almento 12 ore.
Un po' di brodo vegetale, con una cipolla, due patate e un pezzo di sedano.
In una padella si prepara un soffrittino con aglio e prezzemolo, da lasciare lì finché non diventano amici. Poi due cucchiai di concentrato di pomodoro, e si aggiugono i fagioli, che vanno fatti cuocere insieme a due mestolate di brodo. Quando il brodo è tutto assorbito, se ne aggiunge un'altra mestolata.
Quando i fagioli sono cotti a sufficienza, se ne tirano via un paio di manciate, e il resto va passato con un passaverdura. Cotta la pasta (maltagliati, preferibilmente) a parte, a metà cottura si unisce al passato di fagioli e a quelli ancora interi.
Un filo d'olio crudo quando la pasta e fagioli è già nel piatto.
O dei crostini.
Il vapore che sale dal piatto riempie il cuore.
Tira via tutto il freddo di questi giorni, di quegli occhi che guardano dietro al fango, dei pantaloni bagnati appiccicati alla pelle, dell'eterno rincorrersi delle stagioni che se ne fregano altamente dei nostri brividi di freddo e delle vampate che scaldano il cuore.

13 ottobre, 2010

LA NOSTRA VITA E' QUELLO CHE I NOSTRI PENSIERI VANNO CREANDO


Fare colazione all'Althea è il lusso a portata di mano per tutti gli spezzanesi.
Non è un caffè al volo, preso al bancone bruciandosi la lingua, l'eurino sul bancone e via, verso la vera distinazione della mattinata.
L'Althea E' la destinazione della mattinata.
Ci si va alla domenica mattina, quando si ha molto tempo a disposizione.
Ci si siede al tavolino.
Si passano in rassegna pensierosa tutte le prelibatezze dietro al vetro lungo come un sogno: bignè tronfi di piacere, cannoli fragranti, svedesi che sembrano laghetti alpini di crema, fragole scintillanti, cascate di granelle di cioccolato..
Poi si decide, a malincuore, di prenderne solo due o tre.
O si imbastiscono da portare a casa vassoi grandi come campi da rugby, avvolti amorevolmente e infiocchettati con i nastri dei regali delle grandi occasioni.
Sa di altri tempi, quella carta velina. Con i caratteri dorati e svolazzanti di quella "A" inconfondibile.
Ci sono le bustine di zucchero a forma di cuore, all'Althea.. ma vi rendete conto?
E poi c'era lui.
Usciva fuori dalla sua fucina privata, là dietro al bancone, per salutare la gente. Per sedersi ai tavolini. Con la marsina bianca ed il cappello da pasticciere, che portato da lui somigliava un po' ad un cilindro da gran sera. Guascone.
Pizzetto nero sorridente, una grande gioia di essere lì, il piacere di vedere il piacere sul volto degli altri. Ad ogni morso di torta. Ad ogni sorso di prosecco.
Guai ad ordinare un caffè decaffeinato. O un caffè al ginseng.
Lui avrebbe tossicchiato discretamente, prima di consigliare (ma per il tuo bene, eh, sia ben chiaro!) di non prendere quella robaccia chimica. Che il decaffeinato alza il livello di colesterolo cattivo; mentre, invece, il caffè classico è un elisir di lunga vita!
Se non hai problemi al cuore, ovviamente.
E che dire del caffè al ginseng? Robaccia: dentro le cialde ci mettono la roba chimica, e ti si attacca tutto quanto alle pareti dello stomaco.
Poi, vuoi mettere con la bontà di quel caffè?
Preciso.
Come dovrebbe essere ogni caffè, non solo quello della domenica.
Era bello, che ci fosse lui.
Però adesso non c'è più.
Grazie per tutto quanto, comunque.
Non prenderò più un caffè decaffeinato in tutta la mia vita, promesso.

31 agosto, 2010

NON SENTI CHE TREMO MENTRE CANTO


 
L'estate, per noi bambini, era un mare di tempo che si stagliava immenso dopo la scuola.
Erano piedi scalzi, sull'erba.
Erano giornate intere passate nei boschi, sapendo solo che bisognava rincasare prima del tramonto.
E il tramonto arrivava ben dopo l'orario in cui, normalmente, eravamo già coricati a letto.
Erano tavoli apparecchiati nel cortile, dove i grandi giocavano a carte e bevevano bottiglie di vino rosso senza etichetta.
Era la strada fatta orgogliosamente da sola, per andare a comprare il pane.
Mia nonna era con me durante tutta l'estate, e tutto l'inverno.
Tanto che, ogni tanto, mi scappava di chiamarla mamma.
In questi giorni, le ho visto negli occhi lo sguardo di chi se ne sta andando.
Non è una partenza di sofferenza.
Non c'è dolore, o rabbia, o ripensamento.

E' lo sguardo della bimba che guarda l'estate.

Ride sempre, adesso, mia nonna.
E chiede come mai non è ancora tornato a casa il nonno Ivo.
Ha vissuto 85 anni, una grande guerra, la fame, il boom delle ceramiche ai piedi del piano padano. Ha visto passare una monarchia e tre repubbliche.
Qualche papa, ai quali è sempre stata altrettanto devota, senza fare distinzioni tra crucchi e polacchi.
Era lì quando è nato il rock 'n' roll. E' diventata madre, nonna e bisnonna.
Ha pregato per i peccati di tutti noi.
E mi ha insegnato a cucinare.
L'altro giorno le ho dato i fichi che abbiamo raccolto sotto casa mia.
Ne è ghiottissima.
Li volevo preparare con l'aceto balsamico, o col caramello.
Ma vuoi mettere la soddisfazione di vederla di nuovo ridere, come se le avessi fatto il più bel regalo del mondo?

Bisogna tagliare i fichi a metà, e metterli in una padella bassa e larga. Vanno coperti con lo zucchero, annaffiati con uno spruzzo di rum e una spoverata di cannella.
Dopo 4 o 5 ore di riposo, i fichi avranno macerato un po' col rum, e avranno fatto uno sciroppo denso e appiccicoso. Ed è così che vanno cotti. Due ore a fuoco bassissimo, senza mescolare se no i fichi si sfrappolano, ma soltanto muovendo la padella per il manico.
Alla fine, si rovescia il contenuto nei vasetti di vetro precedentemente sterilizzati, si chiude il tutto e si capovolge, come per fare la marmellata.

Anche la nonna mi aveva offerto fichi, quando la ero andata a trovare qualche settimana prima.
Lo zio l'aveva sgridata: "T'ho detto un sacco di volte di non mangiarli quei fichi! La pianta è troppo vicina al capanno del vicino, che ci ha messo l'eternit sul tetto. Non lo sai mica che l'eternit fa venire i tumori?". E lei, seria seria: "Se, mò quant teimp ag vòl, prema ed murir per l'eternit?".. E lo zio: "Maaaa.. il tumore ha un'incubazione di circa 15 anni".
La nonna, allora, mangia un altro fico e sorride: "E alòra,'sa m'in frega a me?"..



19 luglio, 2010

GIOIA E RIVOLUZIONE

L'aria non si muove.
Gira il ventilatore, ma è solo un ronzio indistinto perso in un mare di cicale.
Non si muovono i cani, stesi con la pancia sulle piastrelle, per riuscire ad avere la sensazione di un po' di fresco.
Rotolano le gocce sul dorso della bottiglia di birra.
La panzanella in una grande ciotola azzurra in mezzo alla tavola.
Il pane duro va tagliato a rondelle, o dadini. Bagnato con acqua per ammorbidirlo. E mescolato con i sapori stessi della verdura di stagione: pomodori, soprattutto, ma anche cipolla, e cetriolo. Olio sale e basilico, a completare un piatto povero: ma è forse l'unica cosa che vale la pena di essere mangiata con questo caldo torrido e impietoso.
"Di cosa non potresti mai fare a meno?"
Ti guardo, mentre mentalmente sottrai tutto quello di cui non hai bisogno.
Le gambe sono distese verso di te, mollemente adagiate su una sedia.
La stanza risuona di un disco degli Area, che non avevi mai sentito.
Ti avevo appena raccontato di quando sono arrivati in Calvanella ad abitare Pier e l'Elisa, e hanno capito di essere nel posto giusto appena dopo avermi detto che il loro bambino si chiama Demetrio: invece di dire "... come Albertini!" ho detto "... come Stratos!".
E Pier ha sorriso sotto la barba lunga.
Hanno disteso il balcone con le bandiere delle preghiere, e ora il cortile risuona spesso dei loro mantra.
Pier si mette fuori dal balcone, alla sera, sulla sua sedia a dondolo e suona la chitarra.
Io canto con lui, dall'altra parte del corridoio di casa mia, mentre lavo i pavimenti.
E se parte con Redemption Song, mi faccio di corsa tutte le stanze per andare a sentirlo da vicino.
Pier e l'Elisa hanno portato su in Calvanella anche un pianoforte.
Io l'ho avvicinato con timidezza.
Non toccavo i tasti di un pianoforte da molti anni, ormai.
Ed è stato come ritrovare un amico, suonando sgraziatamente il Canto Senza Parole di Mendelssohn.
Pier, l'Elisa, Demetrio e la Rebecca stavano nell'altra stanza, mentre le mie mani riprendevano familiarità con le note. Solo i cani mi hanno seguito e si sono messi sotto di me, accucciolati, per ascoltare cosa stavo combinando.
Quando si sono conosciuti, Pier ha guardato l'Elisa, e le ha affermato subito con certezza che sarebbe stata la madre dei suoi figli. Lei aveva riso, dicendogli che era matto. Ma sono stati insieme: e lei è diventata la madre dei suoi figli, effettivamente.
"Di cosa non potresti mai fare a meno?"
Non ci hai pensato tanto.
Vuol dire che, in realtà, è proprio come dici tu.
Non abbiamo bisogno di tutte queste cose, per essere felici.
Abbiamo bisogno di essere liberi.
E tutto quello che abbiamo, o facciamo, o diciamo, diventa l'espressione della nostra libertà.
E diventa un pallone da rugby, il sapore dei marusticani o del Sangiovese, sollevare la visiera del casco per sentire il vento sul viso.
E un milione di stelle nel cielo finalmente pulito, dopo un fine settimana di caldo tropicale.
La libertà, e l'universo intero, stanno in una lacrima di gioia.

28 giugno, 2010

CHIEDI CHI ERANO I FUGAZI


No, non ti snocciolerò una definizione di quelle da enciclopedia del rock.
Ti dirò chi erano per me, i Fugazi.
Erano le sere che finivo di lavorare al ristorante, coi piedi gonfi dalle volate tra la cucina e i tavoli, e la testa rallentata dal lambrusco.
Sonno mai: non si è mai stanchi a vent'anni.
Le notti erano fresche e pulite, e conservavano solo il vapore d'asfalto del caldo patito durante il giorno.
Me ne tornavo verso la radio. Alle due. Alle tre di notte. Aprivo piano la serranda, per non allarmare i vicini impiccioni. Tenevo accesa solo la luce della sala di trasmissione. Preparavo un disco dei Fugazi, senza dire niente al microfono, toglievo la nastroteca che andava per tutta la notte, una specie di lavatrice che faceva girare le audiocassette da 120 minuti ciascuna.
E partiva Waiting Room.
Dall'altra parte, qualcuno era sveglio, e teneva la radio accesa per passare la notte con la musica.
Si accorgevano subito che Waiting Room era stata lanciata da una mano umana, e non dalla lavatrice.
E chiamavano i telefoni della radio, per sentire chi era il dj insonne.
Ma io non rispondevo.
Quelle notti dei Fugazi erano solo mie. E andavo avanti con la mia musica.
Ora ti racconto mille cose, dei Fugazi e di mio nonno. Di dove sta la seconda linea dopo il calcio d'inizio. Delle gole del Verdon.
Tu affetti le zucchine, tutto concentrato. Sembri sorridere leggermente di questo fiume di parole che ti arriva addosso. Sciogli una nocetta di burro in padella. Scotti i gamberetti. E con gesti sicuri li sgusci e li fai finire di cuocere, insieme alle zucchine. Il pepe appena macinato, quello più odoroso. E cuoci anche i fusilli, quelli con la grana grezza.
Vorrei dirti che bene mi fanno, tutti questi sapori buoni.
Ma forse lo sai già. Anche senza queste chiacchiere.
E' una sensazione strana, per me. Io che ho sempre fatto di testa mia.
E che mi sono dovuta prendere delle responsabilità per altre persone.
Ora non so bene come comportarmi, se qualcuno mi dice: "Aspetta, lasciati guidare".
Sono stupita di quello che succede, e se invece a te meravigliano questi occhi spalancati è perché vedo che ti vengono spontanei dei gesti che io ho ricercato a lungo nelle persone, senza trovare comprensione: la voglia di raccontarsi, soprattutto.
La lucidità di sapere perché ti succedono le cose nella vita.
E soprattutto, una naturalezza disarmante.
Me l'avevano detto che nella vita le cose più grandi sono le più semplici, e si possono dire con una parola sola.
Non è mai successo che capissi così tante cose con un bacio.

01 giugno, 2010

TAGLIA E CUCI


 
Ho un rapporto molto complesso coi peperoni.
Mi piacciono. Ma so, nell'attimo in cui li mando giù, che dopo il sommo godimento arriverà il pentimento. Rimangono lì, non c'è verso..
Posso scottarli, togliere la pelle, asportare con pazienza tutti i filetti bianchi dentro.. Niente da fare: i peperoni litigano con il mio stomaco tutte le volte.
Lo so. Li mangio lo stesso.
Un passo indietro: prendo quelli gialli, i più dolci. Scotto, tolgo la pelle e i filetti bianchi dentro. In una padella va fatto soffriggere del porro, con una nocetta di burro. Poi va frullato il porro nel sughetto del burro, coi peperoni, un po' di panna e sale con moderazione.
Ho preso dei filetti di tonno. Scottati per poco tempo, e sopra la salsa di peperone. Guarnito con pepe bianco ed erba cipollina.
So che mi rimarrà sullo stomaco, tutto questo. Ma ci si sono infilata ugualmente, con tutta la sana incoscienza di una cretina che ha due gambe appena maggiorenni..
Due passi indietro.
I peperoni sono fresche serate estive a Bastiglia, sotto un portico che cerca di ritagliare un angolo di Messico proprio dietro al Canaletto. Aria ferma, appena ingentilita da un enorme ventilatore a pale, dotato di buona volontà ma ripagato con scarsi risultati.
La sangria è di quelle a buon mercato, ma è fresca, e la frutta è ben imbevuta di spirito.
Passano i peperoni sul tavolo, quelli dolci e quelli piccanti. Pare davvero perfetto, tutto quanto. Nonostante la sangria a buon mercato, e il cameriere con l'accento napoletano. Nonostante i mariachi non siano veri, ma un disco di quelli comprati all'autogrill. Ma c'è sempre qualcuno pronto a dare un colpetto di gomito, quando il calice della felicità è colmo.
E quel qualcuno è proprio quello che dovrebbe godere di quella felicità.
Tre passi indietro. Avrei sempre voluto avere i mariachi, al mio matrimonio. Mi ricordo che li avevamo quasi trovati: ci dev'essere nel bolognese un gruppo di messicani veri, tenacemente attaccati alle proprie radici. Ma che c'azzecca, un gruppo di mariachi a Bologna? Come lega il peperone col tonno?
Che cavolo sto facendo?
Eh, no: mi dispiace.. Basta passi indietro.

27 aprile, 2010

SE IO FOSSI SENZA PELO



Che cos'avrà mai, sul collo, di così buono? Che mi vien sempre voglia di infilarmi lì in mezzo..
Certo, adesso di odori buoni ne so parecchi: in alcuni giorni, dalla finestra di quella cucina vengono fuori certe promesse di paradiso che mi metterei in mezzo al prato, col naso per aria e la pancia a terra, solo per annusare in santa pace.
Ma poi rimango così ben poco, perché arriva subito quell'altro coglionazzo di mio fratello, e mi salta addosso: vuole sottomettermi, quel piccolo ammasso di pelo.
E' sempre la stessa storia: se io prendo il papero di pelouche, lui vuole il papero di pelouche. Se io prendo una tigella rinsecchita da rosicchiare, lui, guarda caso, vuole la stessa tigella.
E se arriva giù lei (dio solo sa quanto l'ho aspettata, che scendesse quei benedetti gradini, per darci una carezza o un biscotto) ecco subito che si mette a saltare come un matto, e me la vuole monopolizzare tutto il tempo.
Ma lei è brava però: non fa delle preferenze. Ci prende su in braccio tutti e due. E io, mentre sono lì vicino, ne approfitto anche per dare un bel morsicotto sull'orecchio del coglionazzo, così impara ad essere troppo invadente.
Mi ricordo poco, di quando sono nato.
So che c'era sempre lì la mia mamma, e che diventava sempre più magra, con me e tutti i fratellini (coglionazzo compreso) che tiravamo latte come dei matti.. Poi non è stato più lo stesso, da quando abbiamo messo su i denti: non so perché, ma adesso se ci attacchiamo alla mamma lei si arrabbia di brutto, e ci dà una bella testata per scostarci via.
Ma era così buoooono, quel latte.
Me lo sognavo anche di notte.
E mi sognavo di correre.
E di abbaiare.
Fine.
Non è che abbia poi tutta quella scelta di sogni, da sognare. Però mi piaceva lo stesso sognarli, anche se erano sempre gli stessi.
Ora sogno anche questa cosa qui: il collo di lei, quelle poche volte che ci arrivo.
Lei è strana, perché non ha il pelo. E non abbaia: cioè, in realtà qualcosa lo fa, soprattutto se faccio la pipì sul tappeto, ma non è proprio proprio un "abbaiare". Forse deve ancora imparare: io ci provo a insegnarle come si fa ad abbaiare, ma più io abbaio, più sembra che lei non capisca.
E' proprio strana.
Ma anche lei mi dà delle cose da mangiare buonissime..
Forse lei è la mia preferita proprio per questo: perché mi fa sempre mangiare tanto.
Chissà se lo fa anche per gli altri, oltre che per me, il mio fratellino coglionazzo, e l'altro grosso senza pelo: anzi, quello grosso un po' ce l'aveva, il pelo sulla faccia! Ma una mattina ho visto che non ce l'aveva più: sarà la primavera, che non c'è freddo e il pelo non serve più, per coprire la faccia. E però io il mio pelo ce l'ho ancora, e ci vanno in mezzo tutte delle bestioline schifose, ah, che se le prendo con i denti, gli faccio vedere io, gli faccio vedere!..
Va beh, torno dal fratellino coglionazzo.
Speriamo che lei arrivi presto.
E che ci dia sempre da mangiare.
Non so come si chiama questa cosa qui, perché non l'avevo mai sentita prima.
Ma se fossi senza pelo, penso che la chiamerei amore.

26 marzo, 2010

PROPRIOCETTIVITA', T'AVESSI PRESO PRIMA

Le segretarie degli studi medici si somigliano un po' tutte.
Hanno il bancone sempre un po' alto, a cui ci si appoggia stando in piedi, mentre loro, da dietro, rimangono sedute e sembrano un po' in trincea. Guardano la gente tenendo gli occhiali sul naso, e lo sguardo diffidente.
Perché la gente, negli studi medici, generalmente si lamenta.
Soprattutto se lo studio medico in questione è quello del fisiatra, o dell'ortopedico.
E allora è un concerto di ululati, soprattutto quando cambia il tempo.
Le segretarie degli studi medici sfarfallano gli elenchi dei pazienti, sopra la scrivania. Rispondono al telefono, mantenendo gli occhi fissi sul monitor del computer. E con gesti secchi e precisi tengono a distanza ogni tentativo, dall'altra parte del bancone, di lanciare lagnanze come bombe a mano.

Ma basta girare l'angolo e scostare la tendina della sala d'attesa che si spalanca tutto un altro mondo.
Luce chiara di neon, legno chiaro del parquet e delle spalliere sulle pareti.

Laura mi accoglie con il sorriso e il candore abbacinante della sua maglia e calzoni bianchi da operatore sanitario.
Montatura degli occhiali rossa, piccola e bassa, capelli corti e sbarazzini, e due braccia come le mie gambe.. Pardon? Guardo meglio. Sì sì, non gliele hanno montate per sbaglio. Sono due gru da cantiere edile attaccate ad una struttura leggera come una farfalla. Ed un modo di fare disarmante.
Sei lì che ti abbandoni, sul lettino, con intorno tutte le forme colorate della rieducazione motoria: palle colorate, palle morbide, di tutte le misure, come tante bolle d'arcobaleno. Disegni di bambini sulle finestre: "Grazie Laura perché adesso cammino bene e posso giocare ancora". L'ultima puntata dell'Isola Dei Famosi raccontata a beneficio di tutti i presenti, sparpagliati tra un deambulatore ed una cyclette..
E mentre apprezzo sulla guancia la morbidezza del cuscino e sono pronta ad arrendermi... TRAK!
La mia caviglia è presa nella morsa senza scampo di quelle due braccia, dotate di vita propria, che girano il piede senza pietà in tutte le direzioni consentite, e spezzano le resistenze di due mesi di inattività totale.
Ingenuamente, credevo che il dolore più atroce sarebbe stato quello dell'infortunio, ormai alle mie spalle. Mi sbagliavo.
Ma non posso farmi vedere così frignona proprio adesso, proprio davanti a Giuseppe che è caduto sul ghiaccio trascinato dal suo pit bull. Davanti ad Anna, con la schiena esausta dopo una vita di lavoro e di pastasfoglia tirata col mattarello. Davanti all'altra Laura (non la fisioterapista) che ogni giorno mette a posto un arto, per scoprire, durante la nottata, che gliene fa male un altro..

Ma soprattutto, non davanti a Beppe.
Settantaquattro anni, svirgolati brutalmente da un ictus.
Quando entra in palestra annuncia trionfalmente: "Ecco qui tutte le mie donne!...". E appena dietro di lui quella santa donna di sua moglie, che lo rincorre con il bicchierino del caffè in mano, allungandogli uno scappellotto appena vede che bacia qualche fanciulla.
Beppe si prepara una barzelletta ogni giorno, da raccontare a tutte le sue donne (Giuseppe e Norberto non vengono neanche considerati), e sono sempre barzellette sporche..
Non fa gli esercizi che gli sono imposti: ne accenna due o tre, poi lascia perdere e si dedica all'intrattenimento, che è poi l'unico vero motivo per cui è lì, credo.
Laura lascia fare, e sospira. Anche sua moglie, e aggiunge: "Pensate che quando è a casa, invece, dorme sempre!".
Alla fine, invitano me ed Ennio a casa loro, a mangiare le tigelle. E ci sta anche bene, che saltasse fuori qualcosa da mangiare anche da questo posto: la palestra meno salutista del mondo.

Ma non è ancora il momento di pensare ai piaceri della vita: è il momento della mia bestia nera.
La tavoletta propriocettiva.
La propriocettività è una forma di sensibilità dell'organismo, grazie alla quale si riesce ad avere la percezione di sé in rapporto al mondo esterno. In pratica, sapere in quale posizione ci si trova, anche ad occhi chiusi, e saper reagire agli stimoli esterni che tendono ad alterare la nostra posizione nello spazio.
Facile.
Lo sanno fare anche i bambini.
La prima volta che ho avuto a che fare con la tavoletta propriocettiva, prima di tutto, non ne ho saputo pronunciare il nome. E già questo avrebbe dovuto mettermi in guardia da lei.
Ma l'ho sottovalutata, quella bastarda..
In piedi, su quella piattaforma infernale, prima è stata la sorpresa: ma come? Che fine ha fatto il mio equilibrio? La caviglia si rifiutava di fare ogni cosa.
Poi è arrivato il turno dell'incazzatura pazzesca.
Ogni giorno la guardo, alla fine della mia sessione di tortura. E la odio.
Tutti lo sanno e, rispettosamente, tacciono, concentrandosi sull'attrezzo con cui hanno a che fare in quel momento.
Laura si assenta con una scusa. Va nella stanza del laser a sistemare un paziente. Per risparmiarmi l'umiliazione dell'ennesima sconfitta.
Giuseppe sia allontana finalmente riappacificato con la moglie.
Anna pedala, in lontananza. E l'altra Laura rotea il suo bastone da majorette.
Rimaniamo solo io e lei, la mia nemica acerrima.
E la sfida si rinnova.
La aggredisco all'improvviso, piombandole addosso senza preavviso. Lei scalcia, e mi dà il suo avvertimento con le prime due o tre fitte dolorosissime alla caviglia. Piano: la violenza non è la tattica migliore, con lei. Bisogna addomesticarla, e distribuire il peso corporeo con parsimonia. Ma lei non si fa fregare così facilmente.. Scappa ai lati quasi a sbeffeggiarmi, maledetta.
Non chiedo troppo: solo cinque secondi senza toccare il terreno in uno dei due versanti.
Ma lei no, crudele, non mi lascia neanche una mezza speranza.
Vado via sbuffando, giurando a me stessa che domani avrò la mia vendetta..

04 marzo, 2010

ODE AL RADICCHIO



In tavola, la primavera si annuncia così: con ampie ciotole ricolme di radicchi succulenti ed amarognoli.
Conditi con aceto balsamico mescolato a dolce saba, e con le uova sode tutte dentro, spezzettate ed abbondanti.

Io passo un periodo in cui mangerei solo questo, a colazione, pranzo e cena.

Forse perché non li raccolgo io, i radicchi. Vedo mia nonna, nei prati sotto casa, china ed armata di un coltello da cucina e una sporta già rigonfia della refurtiva. Io arrivo a predare alla fine della caccia, quando ormai sono già stati tolti anche i rimasugli di terra dal bordo della radice.
Lo so, mi tolgo tutto il piacere di godere del frutto del proprio lavoro, ma tutto sommato è una gioia che riservo volentieri ad altri.

Il radicchio, in realtà, è poi il tarassaco. Pianta meravigliosa, che se fosse un animale sarebbe sicuramente il porco. Visto che non si butta via niente.

Prima di tutto, per il soffione.. Il gioco più bello da fare da piccoli: sbuffare forte su queste nuvolette bianche sferiche, per spargere i semini a paracadute.

Poi i fiori gialli, belli da vedere perché dopo tanto grigio e nebbia, i campi si coprono di un verde nuovo e brillante, punteggiato dal giallo vivo dei fiori. Fa bene agli occhi, vedere ancora tutto questo colore, dopo un inverno che non finiva più.

E ancora, il gambo: spezzare a metà il gambo faceva uscire il latte sui bordi. Amarissimo; ma il bello era che se riuscivi a togliere una piccola parte del bordo, lo arrotolavi un po' all'insù e soffiavi dall'altra parte, il gambo del tarassaco suonava come una trombetta.

La radice del tarassaco, seccata, abbrustolita e polverizzata, è usata come surrogato del caffè.
Le foglie possono anche essere essiccate: l'infuso di tarassaco funziona benissimo come disintossicante, e per rendere la pelle fresca e luminosa.
Ha ottime proprietà di protezione per il fegato (anche se, a dire il vero, gli effetti benefici sono spesso annullati dalla quantità spropositata di uova sode che si consumano contemporaneamente all'insalata), e stimola l'attività dei reni: da qui il nome volgare con cui è conosciuto dai più, "piscialetto".
I petali dei fiori sono usati come base per le marmellate.
Tutte le parti della pianta, invece, si possono usare per preparare amari, bevande, aperitivi, e anche la birra!

L'inconfondibile sapore amaro stimola l'appetito; e pare che il tarassaco funzioni anche come blando lassativo, e un buon calmante per le infiammazioni emorroidali.

Io amo i radicchi.
In maniera spropositata.
La leggenda vuole che mia madre, in gravidanza, avesse forti voglie di aceto balsamico, e che di conseguenza, mangiasse in abbondanza radicchi e uova sode.
Io sono nata in giugno. I radicchi cominciano a spuntare a marzo, per raggiungere il culmine della crescita in aprile.
Quindi, ciò significa che ho fatto in tempo a mangiarne moltissimi, ancora prima di nascere.
Si vede che avevo già le idee piuttosto chiare, sui miei gusti..

09 febbraio, 2010

SCARPETTA

 
La mia scarpetta è rimasta al campo.
Mannaggia.
Dopo aver girato tanto per trovare quella giusta, dopo aver corso tanto per uniformarne la sagoma al profilo esatto del piede.
Una forbice ha tagliato i lacci, e due mani caute l'hanno sfilata con delicatezza.
Una specie di Cenerentola al contrario.
E le stesse forbici hanno tagliato anche le calze. E la tuta aderente sporca di terra.
Sotto, il disastro.
La mia scarpetta giace dimenticata, vista l'urgenza di tutto il resto.
C'è stato un universo, in mezzo.
La corsa in ospedale, con l'infermiere che, girato di spalle, non vede il palo della luce del campo, e lo centra con la barella, irradiando il dolore dalla caviglia per tutto il corpo.
E' quell'urto che dissipa la nebbia: da quando ho percepito il crocco con l'orecchio, non ho sentito male. Ho sentito me stessa urlare, come una sirena d'allarme, continua, ma il suono non è arrivato come avrebbe dovuto: era come se udissi me stessa urlare in un'altra stanza.
Ho visto tutti i visi, ma non riuscivo a mettere i nomi al loro posto.
Mi mancavano i collegamenti in testa. Oltre ai collegamenti del piede, piegato in maniera così innaturale. Tutto è ripartito dopo, in differita. Dopo che il piede era già sparito sotto l'imbottitura d'emergenza, e il gesso.
Ho rivisto la mia caviglia solo prima dell'operazione, ed avevo già in corpo l'effetto spaesante del primo tranquillante che danno un attimo prima dell'anestesia: di nuovo quella sensazione così strana, di vedermi addosso qualcosa che non mi appartiene. Sembrava la custodia del mio vero piede, tanto era grande, livida e deforme.
E le spennellate giallastre di disinfettante, con le mie anche che, per colpa dell'epidurale, non capivano più con che angolazione erano piegate.
Ho visto l'operazione in televisione, con lo schermo girato amorevolmente verso di me dall'infermiera, i colori virati in bianco e nero come nelle scene troppo truculente di Kill Bill. Mi accorgevo di perdere sangue solo perché ogni tanto passava un dottore coi guanti sporchi di rosso.
Il Professore ascoltava la radio, durante l'operazione.
E' partita "Alive & Kicking" dei Simple Minds. Io scherzavo con lui, dalla mia parte del lenzuolo: "Difino, l'hai messa per me, questa?". E ridevo. E lui: "Stai ferma, che ti sto operando!...".
E così in queste giornate ho dovuto, di nuovo, aspettare che qualcuno cucinasse per me.
Stavolta è toccato ad Adriano, il fratello di Ennio.
Si prendono dei petti di pollo, e si ammollano bene bene con il batticarne.
E' consolante sentire quei bei tonfi sul tagliere, dal calduccio del pumone sul divano.
Si salano e si passano sulla farina.
Da rosolare nell'olio bollente. Una volta che saranno dorati, l'olio va tirato via dalla padella, e si scioglie una nocetta di burro. Poi, alla fine, si aggiunge il marsala, da sfumare.
Questo intingolo è paradisiaco per la scarpetta.
Non la mia, dimenticata senza lacci in un angolo dello spogliatoio.
Una scarpetta ben più allegra, a colpi di stampella sul dorso delle mani, se ti azzardi a prenderne un po' dal mio piatto..

05 febbraio, 2010

COME SEI VERAMENTE


Molti pomeriggi della mia prima adolescenza erano quelli delle lezioni di pianoforte.
Il Maestro aveva un nome, anzi, un cognome molto importante. Stampigliato su diversi attestati e riconoscimenti, bene allineati alla parete di spalle al pianoforte.
Ma tutti lo chiamavano Maestro: era Maestro per il ragazzo pallido che raccoglieva gli spartiti e mi lasciava il posto caldo sullo scranno. Era Maestro per la moglie dalla messa in piega vaporosa, che non apprezzava la musica. Eppure lei aveva sposato musica, e respirava musica.
Il Maestro segnava su un quaderno le cose da fare: studio n. 12, pezzo staccato n. 32. Linea netta a metà della paginetta. Ogni lezione, una mezza paginetta di annotazioni, con tanto di commenti anche corrosivi: mi ricordo di un rabbioso "bestiaccia" scarabocchiato sotto una sonata di Clementi.
La lezione cominciava con le scale, per scaldare le dita. Mani sollevate sullo Steinway & Sons, e il timore che viene dall'insicurezza. Una volta partita su quelle quattro ottave insidiose di tasti neri e tasti bianchi, non si poteva più tornare indietro.
Do maggiore. La minore. Fa maggiore. Re minore.
Ogni insicurezza, che causava uno sbavatura tra mano destra e mano sinistra, approfondiva le rughe sul viso del Maestro. E si aspettava la tempesta, perché ogni errore generava tensione, e la tensione è nemica acerrima delle scale. E della musica.
Pomeriggi interi a casa, con il panno di feltro ad attutire i suoni tra martelletto e corde, per non disturbare i vicini. Per arrivare al pomeriggio della lezione, a corde spiegate, invece. Con quel pianoforte aperto come un'ala, ad amplificare ogni incertezza.
E miracolosamente, ogni tanto, i momenti di purezza: quando dimenticavo di avere a fianco il Maestro. Quando sparivano alla vista le scritte sopra e sotto il pentagramma. Piano. Allegro assai. Lo sapevo già. Nella mia testa e nelle mie dita. Il piacere era così forte da arrivare diretto sulle guance. Le dita volavano anche senza guardare le note. O meglio: la nota arrivava subito alle dita, sui tasti, senza passare dagli occhi.
Il silenzio dopo l'ultimo eco del riverbero.
Il Maestro che non commentava mai, quando la musica andava al posto giusto.
E ricordo ancora nitido quel pomeriggio.
Mio padre non arrivava ancora per riportarmi a casa.
Nessuno alla lezione seguente.
Il Maestro stava solo sullo scranno, mentre io bevevo il té che mi aveva portato sollecita la moglie dalla messa in piega vaporosa.
Il Maestro inizia a suonare.
Subito sono note sommesse.
Dolci come passi di danza.
Poi si allargano sulla tastiera. Poi sono note dolorose, impetuose, imponenti sui tasti bassi battuti dalla foga. Poi ripiegano su se stesse. Fino a che l'ultima nota si perde fuori dall'ala dello Steinway.
Il Maestro si gira.
"Ma che fai? Piangi?"
Non me ne ero neanche accorta.
Il preludio n. 17 dell'opera 28 di Chopin.
Appena arrivata a casa ho comprato lo spartito.
Non riuscirò mai a suonarlo.
Ora che ho le dita piegate dalle insaccature. Ora che non riesco più a suonare una sola nota in pubblico, per la vergogna, per timore, pudore.. Non so.
So solo che anche adesso piango, tutte le volte che lo ascolto.

11 gennaio, 2010

IT'S ONLY ME WHO WANTS TO WRAP AROUND YOUR DREAMS



"Molto bene. Adesso conti da 10 fino a 1, a ritroso"

10...
Il numero sulla mia maglia.

9...
Il record irripetibile delle pinte di Guinness bevute nella stessa sera. Festa della Libertà, a Zocca, 2005.

8...
Gli occhiali, o le lenti a contatto. Quante volte le ho perse nel fango, dopo un colpo! Anche a un lembo di terra dalla meta, per l'ennesimo urto: urlo forte all'allenatore, per avere la borsa medica e una lente in più da indossare al volo. Non c'è tempo. L'arbitro fischia la ripresa del gioco. Ovale tra le mani. Abbatto tutto quello che mi si para davanti, che sia del mio stesso colore di maglia o no. Meta.
E l'allenatore che dalla panchina mi urla di rimando: "Laraaaa, perdi anche quell'altra, allora!".

7...
L'angolo di inclinazione che riesce a raggiungere il ginocchio adesso, con massimo sforzo.
Dopo l'operazione riuscirò ancora a piegarlo del tutto, a rannicchiarmi a terra per raccogliere un oggetto, per aprire un cassetto, per allacciarmi una scarpa. Ora no.

6...
I mesi che dovrò stare senza giocare.

5...
Maggio. Quando mi sono fatta male. Ancora quello scrocco sinistro che ogni tanto mi si ripropone in testa, che mi fa stringere i denti e accapponare la pelle.

4...
L'ora a cui mi telefonano le persone quando hanno veramente bisogno. O pensano di avere veramente bisogno. Quale che ne sia la causa, la sensazione è opposta rispetto ad ora: riemergo dal sonno, con un disturbo sonoro in lontananza. Prima credo sia la sveglia, poi sovrappongo in testa l'idea che sia il telefono, poi farfuglio a bassa voce, e dall'altro capo del filo arriva un pianto disperato: sarà una lunga notte...

3...
Terzo tempo. La soddisfazione di mangiare dopo aver dato il massimo, e divertirsi dopo essersi divertite.

2...
Le convocazioni in nazionale. Una di karate, e una di rugby. Già sotto al karategi portavo la ginocchiera per rinforzare il sostegno del ginocchio destro. Una convivenza con un malanno che arriva da lontano.

1...
L'unica volta che sono andata sotto ai ferri prima di adesso. Appendicite, nell'estate dopo la quinta elementare. Anche allora la rabbia, per essere confinata in un letto. Lo stupore di questo letargo innaturale. La sensazione di galleggiare nell'irrealtà.

Chiudo gli occhi.
Buona notte.
Ci si rivede al risveglio.