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Spezzano, Modena, Italy
Inguaribilmente energetica, e contagiosa.

28 novembre, 2007

LA LUGANEGA DELLO ZAFFANELLA



Molti anni fa, conoscevo questo ragazzo che giocava a rugby.

Quelli della ballotta lo prendevano per il culo, per questa sua passione: "Ma cosa fai, giandone?!". Non si sa, da dove arrivi questa parola in modenese: e non si sa perché descriva un ragazzo alto come una pertica, magro magro, sgraziato e un po' perso.

Non era proprio perso, però non riusciva a spiegare il perchè preferisse la palla ovale e le sue regole strambe, piuttosto che quella tonda e le discussione condivise nei bar di ogni angolo di strada.

Il ragazzo continuava ad allenarsi, e diventava sempre meno magro, e padroneggiava sempre meglio i suoi movimenti. Quelli della ballotta non lo prendevano più per il culo, ma continuavano a non capire.

E lui aveva smesso di parlare di rugby.

A parte una sera, in pronto soccorso.

Ci ritroviamo con un dito e una testa rotti: dito suo e testa mia. E finalmente parla: un fiume in piena, anche se ancora non so che si chiama rugby.

Quando è cominciata la mia avventura con il rugby femminile, lui è stata una delle prime persone ad impararlo.

L'altro giorno, leggendo le notizie sulla giornata di Super Ten, ho letto il suo nome.

Ero felice, e commossa.

Sono andata a vederlo: avevo dietro tutti i Miclas che ruggivano, ma non sono riuscita a fare neanche un coretto timido: troppo emozionata!

Era una di quelle partite dove si levano ampie nuvole di vapore dalle mischie, e il freddo sugli spalti fa un contrasto pazzesco con le gambe scoperte dei giocatori, col sudore e la fatica.

Durante il terzo tempo mangiavamo grandi panini alla Luganega, e birra nell'altra mano.

Mi è venuto a prendere in mezzo a quella marea di felpe e giacche giallonere: "Vieni, Lara: ti presento mio fratello!".

Aveva sul viso i lividi della seconda linea, quelli sulle tempie.

E gli ho detto: "Adesso ho capito!".

E sorridevamo come due bimbi.

16 novembre, 2007

IL MIO RAGU' CONTRO L'ANORESSIA

Il ragù è per me segno di festa: me lo sarò tirata dietro da queste radici contadine che non ne vogliono sapere di andare via. Se un giorno ho un bel po' di tempo da passare in cucina, se sono andata in macelleria a scegliere il boccone migliore (scegliere? Macché.. è sempre lui, il macellaio ridanciano e pelato, che mi rifila quello che gli pare), se ho voglia di lasciare in casa quel buon odore di... "casa abitata", che rimane per tre giorni.. beh, io faccio il ragù.
Prendo la pentolona grossa, lo cucino tutto in una volta per un battaglione: quello che non uso subito, lo dissemino in cinque o sei bicchierini di plastica, coperti con la pellicola trasparente, per congelarli e farmi i miei surgelati casalinghi pronti in cinque minuti.
Non sono una di quelle che ci mette dentro tutte le verdure, a fare il soffritto: anzi, ammetto solo cipolla, carota e qualche pomodorino ciliegino, col sale, nel tritato da passare nell'olio per sette minuti. Non di più. Poi la carne, e mezzo bicchiere di vino bianco. Il sugo di pomodoro è un momento delicato. Il ragù non deve diventare un festival del pomodoro. Insomma, senza esagerare: ma occhio che si attacca alla pentola in un battibaleno, e dopo è un disastro, perché fino all'ultimo bicchierino surgelato si sconterà quell'orrendo saporaccio della distrazione momentanea!
La casa diventa più casa, quando si cucina il ragù.
Mi ricordo le prime volte alla casa dei matti: una casa non amata. Senza tende. Con il frigo vuoto. Il ricordo di un matrimonio finito che aleggiava ancora tra le pareti. Il riscaldamento funzionava, ma si sentiva sempre freddo.
Ho combattuto quel freddo con una pentolata di ragù.
La bimba rientrava dalle lezioni mattutine, che già la pasta era da scolare ed allegre volute di vapore mi arrivavano dritte agli occhiali (malediz!...).
Le chiedevo, mentre andava ad appoggiare libri e stanchezza in camera da letto: "Vuoi un piatto di pasta?". "Nooooooo, grazie. Ho già mangiato all'università" (see, come no?!). Io, zitta zitta, aggiungevo un piatto al tavolo, e riempivo di una mestolata, non abbondante per non spaventare. Il richiamo del ragù era infallibile: dopo cinque minuti arrivava, sulle sue ciabatte morbidone.
Guardava il piatto con fare indifferente: "Ma tu il ragù non lo fai come mia madre: lei ci mette un casino di unto, e si appiccica tutto al palato!" (eh, lo so bimba: non piace neanche a me il ragù troppo unto, quando fa quella bavetta arancione che rimane nel lavello anche dopo aver lavato i piatti!). Chiedevo: "Vuoi un po' di formaggio?". "No, grazie.." (eh, sì: mi allargavo un po' troppo!). Il piatto era vuotato, equamente diviso tra i racconti dei suoi morosi e gli esami da preparare.
E io la ascoltavo, ripensando ai miei esami, ai miei terribili morosi dell'adolescenza, e alle schifezze che mangiavo nella mia inquietudine. Solo vasetti di yoghurt magro, o fette di cocomera. Per settimane. Sospiravo: tanto in freezer stavano già pronti cinque o sei bicchierini di plastica, coperti con la pellicola trasparente.