Cerchi di convincerti che tutto intorno sia sempre lo stesso, quando si spegne la luce.
Ma spalanchi gli occhi, aumenti il respiro, e dal nero affiorano le tue angosce.
Un bambino serio dagli occhi cerchiati, con la frangia appiccicata alla fronte.
Una mano che ti tiene ferme le braccia.
O semplicemente il nero, che si spalanca all'infinito.
Una paura atavica. Quella di essere sepolti vivi.
Quella che mi faceva voler uscire in giardino in piena notte, per stringere l'erba tra le dita e guardare una placida notte di stelle. Quella che mi ha fatto impazzire in metropolitana a Barcellona, quando ho cominciato a correre tra la folla, facendomi largo coi gomiti e con la disperazione, per trovare un varco verso la superficie. Quella che coglie all'improvviso, se salta la corrente elettrica nella casa in montagna, e all'improvviso hai la percezione terrorizzante di essere da sola e vulnerabile.
Notte fonda.
Nel letto.
E una scrollata di spalle dei colossi della terra polverizza le costruzioni dell'uomo.
10 centimetri di differenza per la terra.
Una vita in frantumi per molti uomini.
Penso a quella vecchietta che hanno tirato fuori dal buio, dopo 30 ore, viva, lei e i suoi 98 anni.
30 ore di buio.
Faccio rapidamente le proporzioni tra la mia paura della metropolitana e 30 ore di buio.
Lei ha lavorato all'uncinetto.
Ieri sera sono tornata a casa.
Guardavo i muri, che hanno strappato commenti di ammirazione a tutti gli artigiani che hanno lavorato lì dentro in questi mesi: "Eh, sì, questi sì che sono muri. Mica come adesso, che vogliono risparmiare, e li fanno sottili come la carta velina. Questi sono muri d'altri tempi..".
Avevo nelle orecchie tutte le telefonate del giorno, le preoccupazioni, le rassicurazioni, le attese, le incertezze sul da farsi.
In altri tempi ero partita: per andare in Umbria, a Nocera Umbra.
Ricordo il cambiamento di atmosfera quando scendeva la luce.
Fino a poco prima, la gente si attardava a bere Sagrantino nei bar sul limitare della zona storica. E noi prendevamo ampie sorsate da quella fontana che si diceva miracolosa, per il fegato.
Ma quando veniva sera, non si aveva più voglia di ridere.
Le travi messe a puntellare le facciate diventavano oscene, scheletriche, pericolosamente precarie. I cavi e la plastica che oscillavano al vento. Niente luci che si levavano dalle finestre e dai lampioni.
Le luci dal campo uscivano attutite, parate dalle tende. Dentro, sagome di uomini che si intravvedevano appena, e rumori smorzati, sempre sottovoce, per questa vicinanza necessaria e odiosa. Le lunghe panche del refettorio, e il sapore metallico dei grandi mestoli e delle pignatte militari.
Ricordo Lorenzo. Abitava vicino a Milano. Aveva una barba talmente ruvida da aver rovinato tutti i rasoi a disposizione nei primi giorni. Si presentava al mattino presto, con la faccia piena di schiuma, davanti ai lavatoi, e intraprendeva la sua quotidiana battaglia facciale, come impugnando un machete.
Ricordo Francesco. Ci ha messo qualche giorno, a cominciare a parlare. Timidissimo. Eppure era partito anche lui, insieme a tutti quanti, senza sapere bene che cosa avrebbe fatto lì, di preciso.
E lei.
Dove sei, adesso? Chi lo sa..
Non mi ricordo neppure il tuo nome. Mi dispiace.
Eravamo immediatamente diventate amiche, per quelle combinazioni strane di tempo e di luogo che ti portano ad avvicinarti alle persone in maniera anomala. Inseparabili. Ci siamo sentite anche dopo, a lungo. Lei ha avuto un figlio. E l'ho persa. Mi rimane solo quell'immagine di lei, quei suoi riccioli biondi che scappavano da ogni parte.
E l'immagine di quella sera.
La Patrizia di Terni sosteneva a spada tratta che il salame umbro è nettamente superiore al salame emiliano. Io e Francesco a difendere strenuamente i sapori della nostra terra d'origine. Gli altri che aspettavano di poter giudicare sul campo. Il salame emiliano non era nella dotazione del mio zaino, ma Patrizia, invece, si presenta una sera alla tenda comune con bel cesto di salami, chiamati "coralline".
C'era un'atmosfera strana, quella sera: sarà stato il compleanno di Patrizia. Sarà stato che era una delle ultime sere del nostro soggiorno in tendopoli. Sarà stata la voglia di normalità, dopo una giornata passata tra i container. Abbiamo anche ballato.
Lorenzo mi si è avvicinato senza dire una parola.
In seguito mi ha confessato che non aveva mai ballato in vita sua, e non sapeva come mai aveva deciso di ballare, proprio quella sera. Mi aveva scritto una poesia. Che si chiamava semplicemente: "Bella".
Tutto è riaffiorato, contemporaneamente, vedendo il ventre aperto e squarciato de L'Aquila.
E' ricomparso anche l'istinto di partire.
Ma quanto è cambiato da allora!..
Non posso più. Non come allora.
Ho mille legami che mi tengono qui. Ho fondamenta. Ho una casa.
E questo mi rende più nitida la percezione della rovina.
1 commento:
Rossana. Lei è Rossana.
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