"Morso di dentro e infuocato di fuori dalla stretta fissa ed inesorabile di un'idea incurabile".
Qualcuno si toglie il pensiero, e decide che il Capitano è quello con più presenze in una squadra.
Per altri, è il risultato di una scelta consapevole della squadra. O dell'allenatore. O della società.
Per me, è sempre stato così.
Capitana da quando sono giocatrice. Non è una fascia. Non è la "C" a fianco del tuo nome nella lista dell'arbitro. E' lo sguardo addosso di chi chiede aiuto. E' la mancanza di tempo utile per prendere una decisione. E' istinto. E' volontà. E' una sensazione che va oltre il gioco.
E poi c'è il silenzio.
Il silenzio carico dei luoghi dove si fa sport.
Che quando lo sport c'è, c'è anche il battito della competizione, la velocità, lo strepito della rabbia, l'esplosione della gioia e della delusione.
Quando non c'è nessuno, invece, si sente il silenzio dello sport.
I pali verso il cielo, che infilzano la nebbia.
L'erba gelata che crocchia sotto i tacchetti.
L'eco di battaglie già disputate.
Le docce vuote e le panchine sgombre.
Solo quando non c'è nessuno, smetto di essere Capitana.
E' per quello che lascio sempre andare via tutte, alla fine dell'allenamento.
E' per quello che amo il tonfo sordo prima della parabola dell'ovale tra i pali.
E' per quello che aspetto, sotto il getto dell'acqua, ben oltre il tempo che mi sarebbe necessario per togliere il fango dalla pelle.
Pesa come un macigno, quella fascia, alcune volte.
E il silenzio dello sport, stavolta non consola.