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La mia foto
Spezzano, Modena, Italy
Inguaribilmente energetica, e contagiosa.

25 febbraio, 2008

RIXOTO COL TASTASAL


A Verona si mangia il risotto col tastasàl.
“Cos’è?”, chiediamo all’iperattiva cameriera, che continuando a prestarci orecchio, prepara la tavola, restituisce ai nostri vicini di tavolo un pupo che si era intrufolato gattoni sotto una sedia, allunga il carrello dei dolci ad un altro cameriere sfarfallante che lo prende quasi al volo, schema consolidato e provato più volte, a giudicare dal risultato.
Il tastasàl è un impasto di carne macinata, e insaporita con sale e pepe nero grosso frantumato (quello che si mette dentro al salame, per intenderci). Lo si usa per il ragù, soffritto a parte con cipolla, burro e uno spicchio d’aglio schiacciato (che bisogna trovare, alla fine, e fare sparire dal piatto prima di servire). Il riso cotto nel brodo e aggiunto al ragù di tastasàl. Il risultato è un piatto molto ricco, che non si sa se ci sia più carne o più riso: e, in ogni caso, sono in quantità abbondante entrambi.
Il Gigante mi guarda sorridendo da sopra il suo piatto fumante, già pregustando anche la carne salada che gli sarebbe arrivata di lì a poco. Il litro di lambrusco che abbiamo davanti è solo la chiosa di una giornata spiritosa (proprio nel senso di “spirito”) iniziata dal primo pomeriggio.
Com’è riconoscersi?
Vedo la mia piccola pupa che mi riconosce e mi sorride per la prima volta, sotto quell’arcata prodigiosa di riccioli che si ritrova in testa.
Sento l’odore del Gigante nell’incavo tra il collo e la spalla, la prima volta che l’ho abbracciato, con la consapevolezza che quell’odore avrei voluto sentirlo ogni mattino ed ogni sera della mia vita.
E’ la sensazione di calore entrata nel rifugio a Febbio, ondate di neve in vapore acqueo, emanazioni di pelle riscaldata, e speck insieme a formaggio, uguale identico all’aria che accoglieva chi entrava in casa dalla zia Giovanna a Montebaranzone, con le dovute differenze di altitudine.
E’ quel marcantonio che si sbraccia in un parcheggio a Verona, per venirci a pescare in mezzo al traffico, appena giunti in città.
Ci siamo trovati per vedere una partita di rugby. “Ma come?! Non giocava a Cardiff, l’Italia?”, e vai a spiegare alla gente il motivo per cui da Modena ci si prende la briga di macinare autostrada per vedere una partita in televisione che avresti potuto tranquillamente vedere sul tuo divano.
“Ma sono tuoi amici, quelli di Verona?”: altro aspetto controverso.
Per la verità, solo uno è di Verona: gli altri sono stati chiamati all’adunata dai posti più disparati. Alcuni di essi non li ho mai visti, altri una volta, di sfuggita, altri due volte. Ma ci mandiamo messaggi sul telefono in piena notte. Si sono inteneriti davanti alla foto di mia nipote. Ci parliamo tutti i giorni. Come dire: ci siamo riconosciuti.
Ma di preciso, cosa si fa in quel pub che ha aperto quasi apposta per voi, lì a Verona?
Si sta bene, tutto qui.
L’Italia prende una seria lezione di umiltà dai dragoni.
Il gallese che prova ad entrare in bagno dopo la partita, si eclissa alla velocità della luce, appena si vede circondato da due italiane alte come le torri gemelle, che pare abbiano intenzioni bellicose nei suoi confronti.
E le birre intanto girano sul bancone, anche quelle sgasate, a pompa (il barista ha pudore, a chiamare le cose con il loro nome: i forumisti un po’ meno..), che se ne possono bere di più.
Della partita tra Irlanda e Francia, ricordo poco o niente: ricordo che eravamo lì, invece, molto impegnati a cercare di fare la posizione yoga dell’albero. Torniamo verso il parcheggio per salutarci, con un ultimo giro di brindisi, cantando le canzoni dei Pogues sotto le mura di fortificazione della città.
“Possibile mai? Vai a Verona e non vai a vedere l’Arena?”.
Bah, la mia guida non mi ci ha portato.
E se la mia guida non mi ci ha portato, aveva sicuramente i suoi buoni motivi.

20 febbraio, 2008

CAAAAAAAVOLO!



 
Tsk tsk... giornate a metà!
Ho la metà delle mani a disposizione. Un altro dito ha pensato bene di aggiungersi alla collezione delle dita/figurine, o meglio: gli adesivi vanno sopra le dita. Ormai sono più quelli coperti che quelli liberi.
Anche fare da mangiare risulta molto più difficile.
Il cavolfiore è tagliato male, grossolano.
Da parte vanno le foglie più tenere. Le altre, nell'immondizia.
Le parti salvate del cavolfiore vanno dentro la pentola a lessare con acqua salata. L'acqua di cottura va tenuta per due ottimi motivi: in parte serve dopo. Il resto, dice la nonna che fa tanto bene alla pelle. Sarà, ma dopo il primo sorso passa ogni velleità salutista.
In un tegamino a parte ci va un po' d'olio, ci si scoglie dentro un po' di margarina (burro MAI!) e va fatta la besciamella, unendo farina e mescolando bene per evitare i maledetti grumi. Qui va aggiunta l'acqua di cottura del cavolfiore, sempre mescolando e facendo bollire. Un po' di pepe dentro la besciamella, poi mettere dentro il resto del cavolfiore e della ricotta.
Il pastone (poco bello da vedere, lo ammetto: ma poi è tanto buono che chi se ne frega dell'estetica!) va poi messo in una teglia unta e spolverato di pangrattato e parmigiano reggiano. E infine dentro il forno a 200 gradi, a gratinare ben bene.
La ricetta è saltata fuori al tavolo dell'eXalumeria, alla quarta birra, con due ascoltatori allucinati dal discorso fiume che stava fluendo.
Ogni tanto mi càpita.
Non avere la misura giusta delle parole.
Parlare così tanto da stordire.
I discorsi sulla vita, l'universo e tutto quanto.
Quando a volte basterebbe così poco.
Per reazione, il giorno dopo, uso una replica secca e acida, molto lontana dalle carezzevoli parole di conforto che solitamente mi sgorgano così facili, e in abbondanza.
Se fossi a disposizione a chiamata, sarei una puttana.
Che sta succedendo?
Non avrei voluto vedere anche questo.
I pugni in campo, le parole dietro la schiena, le lacrime.
Funziono a metà regime.
Una mano sola.

12 febbraio, 2008

LA TORTA BAROZZI


La Torta Barozzi sta a Modena come la Ghirlandina sta lì in mezzo a Piazza Grande.

Non è che ci si pensa sempre.. anzi! Sta lì. E tanto basta. Poi, un bel momento alzi gli occhi, e la guardi, orgogliosa come se l'avessi tirata su un po' tu.

Beh, adesso adesso la Ghirlandina non è che si veda tanto bene: c'è, ma è stata incartata da questa grande opera d'arte di Mimmo Paladino, che sembra un po' un gigantesco pacco regalo colorato.

La Ghirlandina, adesso, è come quelle grandi bottiglie di nocino a forma di Ghirlandina che ti regalano a Natale dentro le ceste, e ne hai a casa tre o quattro e non sai cosa fartene. La Ghirlandina con dei colori assurdi: dipende dal vetro. Ormai c'è dentro il nocino che ci fa le stalattiti di zucchero, ma via, non si può buttare via del nocino, anche se è compero.

Ecco: la Ghirlandina di Paladino sembra un po' una bottiglia di nocino compero. E' un po' finta, sembra lì perché l'abbiano ritagliata da un'altra città, da un'altra piazza. Ma è per una buona causa, e ce la teniamo anche incartata.

Anche la Torta Barozzi è incartata.

Quando la Torta Barozzi arriva incartata, nella sua stagnola originale della Pasticceria Gollini, beh... è sempre una bella emozione.

Perché la Torta Barozzi vera è un lusso che ci si concede molto raramente.

E non tutte le volte che si va a Vignola.

Spiego per i non modenesi.

La Torta Barozzi, originariamente, si chiamava "Torta Nera".

Poi il Sig. Gollini (pasticcere di Vignola) ha approfittato per appaiare il nome della sua torta a quello di un illustre concittadino, l'architetto Barozzi (che tante cose pregevoli ha fatto per la sua città, tra cui, udite udite, anche la scala che conduce ai tavoli paradisiaci della favolosa Locanda dei Servi), spiegando il battesimo tardivo con una motivazione un po' raffazzonata: così come Barozzi utilizzava le sue conoscenze architettoniche per elevare vere opere d'arte, anche la ricetta della torta era un'equilibrata alchimia di sapori. Va beh...

Questa ricetta, vera alchimia di sapori, rimane ancora segreta dopo più di un secolo, ormai.

Il pasticcere ingegnoso ha avuto il guizzo di brevettare la ricetta, e così nessuno può dire di conoscere la VERA ricetta della Torta Barozzi, a parte quelli che lavorano dentro la Pasticceria Gollini.

O meglio: TUTTI dicono che la vera ricetta della Torta Barozzi è quella che si cucina nella propria casa e nel proprio forno casalingo. Come se tutti si mettessero lì, e rifacessero, per dire, la Coca Cola in casa. Eppure tutti sono estremamente convinti che la propria Torta Barozzi sia identica a quella della Pasticceria Gollini.

Non date retta: la Torta Barozzi vera è solo una.

Dicono che sia fatta con fondi di caffè usati. Cenere. Schifezze assortite. Ma la realtà è solo che tutte le cuoche modenesi rosicano, e si taglierebbero un dito mignolo, pur di avere tra le mani la ricetta mitologica.

E allora c'è poco da fare, ad incaponirsi in queste miriadi di cloni, che altro non sono se non povere e semplici torte di cioccolato un po' più scurette delle altre: la Torta Barozzi conserva il suo meraviglioso segreto, tutte le volte che si solleva quella carta stagnola che prelude ad un piacere divino. E in questo mondo dove tutto è globalizzato, googlato, a disposizione (comprese le ricette, e lo dico remando contro il mio stesso blog), anche un piccolo mistero acquista un grande fascino.



11 febbraio, 2008

AAAAAHOT'AAAAAAPASSO, NUNMEROMPEEEERCAAAAA

 
Giovedì sera.
Guardo il termometro sconsolata: era dai tempi della varicella che non oltrepassavo la barriera dei 39!.. Ma chi se ne frega, tutto sommato: ho quei biglietti per domenica pomeriggio nella borsetta già da un mese, e non annovero l'influenza tra i motivi per cui potrei rimanere a casa da Roma, questo fine settimana.
La Nazionale, per me, è il boato del Flaminio che canta l'inno a ondate, con un tempo approssimativo, ma con tutto il fiato a disposizione di più di ventimila polmoni! E' una famiglia (padre-madre-bimbo di sei mesi) tutta munita di mega parrucche afro azzurre, portate con orgoglio, anche se sospetto che per il pupo fosse più un surrogato di cappello, per riparare la creatura dalle micidiali folate ascensionali che arrivavano sulle tribune provvisorie: una ragnatela metallica su cui gli operai stavano ancora lavorando, la mattina stessa della partita. Che brivido di paura, alla fine della partita, quando i fortunati possessori dei 6000 biglietti extra si sono diretti alle uscite, e le impalcature hanno cominciato ad oscillare in maniera curiosa. Confesso di aver pensato, più per scaramanzia che altro, ai titoloni dei giornali del giorno dopo: "Crollo delle tribune provvisorie del Flaminio!". Tiè!
Il 6 Nazioni ha per me il sapore della birra, bevuta nonostante l'antibiotico (brava!). Il sapore di una carbonara mangiata in una bettola, stretti come le sardine, gomito a gomito con una valanga di turisti stranieri che non sanno neppure come si fa a girare una forchetta, e che tagliano gli spaghetti con il coltello. Il sapore dei panini gommosi presi per tappare una fame improvvisa. Una pizza con mozzarella di bufala, e la salsa cocktail (!!!) sotto a rinforzare il sapore, a tradimento: altra cosa fatta ad uso e consumo dei palati non italici..
Ma noooooo.
Posso capire ed accettare che se io vado a New York e mi intestardisco nel voler mangiare una pizza, per nostalgia, mi sarà servita una cosa ignobile che non potrò neppure far somigliare vagamente a qualsiasi ricordo di pizza io serbi nella mia memoria.
Ma ci sta.
Colpa mia.
Ma se io voglio mangiare una pizza a Roma, sono nel mio pieno diritto di farlo!
Ho il diritto di mangiare una pizza, senza il rischio di trovarmi dentro salse cocktail, anatre, ananas o qualsiasi altra cosa non dovrebbe trovare posto in una pizza.
Finito sfogo intollerante.
Credo sia colpa degli antibiotici.

04 febbraio, 2008

COSCIA DI POLLO


Mi fa senso la pelle del pollo.
La Romilda, su in Calvanella, non provava alcun rimorso a torcere colli di gallina.
E subito si metteva lì, sulla sua sedia, a spennare allegramente, mentre continuava a parlare di mucche, di latte, di fieno con la Bice, la sua dirimpettaia.
Incurante degli occhi spalancati di noi bambini, già prossimi al pianto per la triste sorte del pennuto, e non ancora allettati dal risvolto culinario del suo sacrificio: era ancora troppo presto, infatti, per mettere in correlazione un bel pollo alla cacciatora, con tutte le verdure fumanti stufate a puntino, magari appaiato col cestino delle tigelle lì a fianco, con quel corpo molliccio spiumato.
La Romilda, dopo aver sradicato le penne del pollo, lo passava sulla fiamma, per eliminare quei pochi ciuffetti che erano sfuggiti alle sue dita rapaci. E l'odore era sospettosamente simile a quello che più tardi sentii sul dorso delle dita dopo aver maneggiato in modo maldestro un accendino..
La pelle del pollo, ora, è come quella delle mie gambe.
La pelle ruvida non ne vuole sapere di distendersi, anche dopo essere stata tranquillizzata da un bel caldo domestico, dopo molte ore.
Guardo le mie gambe, con stupore.
Le mie gambe sembrano una cartina geografica.
Hanno segnato sulla pelle tutti i solchi del campo.
Sono monti, avvallamenti, sono gole profonde nell'incavo del ginocchio, quando ti chini a sfiorare il fango, piantando le punte dei piedi per avere un appiglio, per spostare.
Sono una catapulta, quando le braccia si protendono nel vuoto, e all'improvviso l'impatto: faccia, sul fianco. Stretta di braccia per resistere all'urto.
Le mie gambe sono un ponte levatoio.
Lo vedo nel sollievo degli occhi di chi sta davanti, e non riesce a proseguire, e sente le mie gambe addosso in sostegno, anche se non le vede con gli occhi, coperte da un groviglio di braccia, corpi, dorsi.
Le mie gambe hanno fatto strada.
Mi hanno sorretto quando tutto il resto del corpo voleva arrendersi.
Mi hanno tradito quando la testa voleva andare avanti, ma non ce n'era più per nessuno.
Le mie gambe emanano calore, pulsano, soffrono sotto qualsiasi vestito, che anche la seta più fine non è abbastanza morbida, e sembrano braci sulla pelle aperta.
Le mie gambe chiedono carezze, e invece si sono ritrovate a dover allungare dei calci.
Ogni tanto erano i calci belli, quelli che portano una palla fino al cielo.
Il vettore della forza che parte dall'anca ed esplode dal collo del piede con un suono armonioso come nessuno.
Qualche volta erano i calci della rabbia, che si sfogano su un ciottolo per strada. Contro il vento. O contro un'anda del mare.
I calci che fanno male: ma non perché strappano un muscolo per la troppa fretta di essere tirati.
I calci che fanno male perché non servono a niente: non c'è una palla che apre le porte del paradiso. Rimane tutto dentro, dentro quelle gambe. Dentro una casa sempre troppo vuota.
Le mie gambe, oggi sono così.
E, stranamente, per la prima volta la pelle del pollo non mi fa senso.