Informazioni personali

La mia foto
Spezzano, Modena, Italy
Inguaribilmente energetica, e contagiosa.

31 marzo, 2008

NON TE NE ANDARE


"Non te ne andare!"
La voce del Gigante era riuscita a superare le grandi profondità di quel corpo così lungo, così grande, con il cuore così lontano dalla testa. Arrivava dal buio. Se ci fosse stato anche un solo spiraglio di luce, non avrebbe potuto parlare, davanti a quegli occhi.
Lei era meravigliata. Continuava a torcersi tra il pollice e l'indice quel ricciolo ribelle che era riuscito a sfuggire alla coda di cavallo. Dunque era possibile: la sua voce sottile, che moltiplicava le parole per riuscire a farsi sentire, alla fine era riuscita ad arrivare al Gigante.
Sapeva che era lì, nel buio. Lo sentiva respirare, a fatica, ora che erano uscite quelle parole inaspettate.
Aveva già l'impermeabile sul braccio. La sua rabbia era grande, furiosa, troppo infiammata per riuscire ad essere contenuta in quella stanza.
Le parole del Gigante avevano avuto l'effetto di una secchiata d'acqua fredda, e la rabbia era evaporata con uno sfrigolio di vapore acqueo. Lei era rimasta sul bordo del buio, senza sapere bene cosa fare.
Il Gigante sembrava stremato, come dopo uno sforzo inaudito.
Lei sembrava stordita, come dopo un placcaggio molto duro.
Buio sul paniere vuoto.
Buio sulle foto sorridenti alle pareti.
Buio tra le pagine chiuse dei libri.
Buio di uno stereo muto.
Buio di un borsone vuoto con resti di fango secco.
Cosa succede a tutto l'amore del mondo?
Tutto l'amore del mondo si decide nel buio di una stanza.

25 marzo, 2008

PIUTTOSTO CHE TIRAR SU DELLA GHISA, FACCIO IL PANE


... che, tradotto in buon italiano, potrebbe suonare anche così: "Poiché il movimento di impastare il pane coinvolge così bene la muscolatura della parte superiore, lo preferisco alle sedute in palestra".
Gianca è orgoglioso di darmi da mangiare quel panino, per cena: il panino che ha impastato lui, con un po' di zafferano e semi di finocchio, e prosciutto cotto come infarcitura.
Il panino, in realtà, è un panone spesso e corposo, con la crosta ruvida, croccante, ma morbido dentro, con la mollica porosa che arriva al palato con consistenza paradisiaca quasi di pèsca.
Il panino di Gianca è frutto di quattro ore di lievitazione, in due sessioni successive.
Quando è andato a chiedere il lievito al fornaio, il fornaio glielo ha regalato: "Una volta lo venivano a comprare tutti quanti, ma ora non me lo chiede più nessuno".
Gianca ha imparato a dare importanza al rito della panificazione: perché gli ingredienti sono veramente pochi, ma molto permalosi. Guai a trascurare un passaggio: la vendetta si ripercuoterà sulla pagnotta finale, in termini di durezza, secchezza, poco appetito.
Per esempio: mai usare il lievito appena fatto uscire dal frigorifero. Scioglierlo in acqua tiepida (tiepida: non calda! Errore gravissimo!) e aggiungere un cucchiaino di zucchero per stemperare l'amarognolo che può insinuarsi nel gusto per il lavorio di fermentazione. Gianca ha introdotto, con l'esperienza, questa piccola variante: non un cucchiaino di zucchero, ma bensì miele di castagne. Una finezza che è stata ripagata con soddisfazione.
Lasciare 10 minuti il lievito sciolto in una pozzangherina in mezzo al vulcanetto di farina: e non abbiate fretta, che quei 10 minuti sono fondamentali.
E naturalmente il lavoro di braccia.
Gianca mi ha chiesto: "Vieni a casa mia, una di queste sere, che facciamo il pane...". E mi immagino noi due, dai lati opposti del tavolo, con la farina fino ai gomiti, che ci raccontiamo le nostre storie, ritmate dal suono costante del tagliere che viene sollecitato dal di sopra, dalle spalle, dall'impasto.
Conclude: "Poi, prima di infornare, spennelli le pagnotte con un misto di olio e burro: l'olio serve per togliere, in seguito, l'umidità. Il burro serve per la doratura dell'infornata".
Gianca guarda le pagnotte dentro il forno.
Affetta il prosciutto.
Ripone tutte le altre pagnotte nella madia, che saranno buone per almeno altri 5 giorni (vanno conservate dentro un sacchetto di carta e, sopra la carta, una sportina della Coop, di plastica).
Ne tiene fuori una per la cena della Lara. Dentro il tovagliolo di carta.
Nel tempo che lui ci mette a parlare, in macchina, la Lara ha già fatto fuori tutto il panino, e raccoglie dal tovagliolo di carta le ultime briciole ed i semi di finocchio.

17 marzo, 2008

UNSKINNY WHOPPER


"Ecco, brava.. prova a raccontare, adesso, se sei capace!.."
"Che problema c'è? Basta dire quello che è successo. E che sarà mai: in un solo fine settimana.."
"Facile a dirsi. Ma non ricordi? Tu eri dentro una bolla d'aria. Come fai a dire di ricordare tutto?"
"No, la bolla d'aria è arrivata dopo.. La storia ha avuto inizio prima. La storia è cominciata quando..."
... La storia è cominciata quando è arrivata quella lettera. Con l'emblema della F.I.R. stampigliato in alto a sinistra, e sotto la dicitura "Settore Squadre Nazionali". La storia è continuata quella mattina, quando mi sono svegliata come al solito ed ho indossato il mio tailleur per andare a lavorare come ogni mattina, ma sotto avevo quelle mutande rosa che mi hanno regalato le mie sorelle, quelle ricamate con mano paziente, sulle quali troneggia, proprio sopra le chiappe: "FOXY LARA" in filo tricolore. Io ero la solita Lara, negli uffici anonimi di un tribunale piccolo piccolo. La gente mi parlava, ma la testa era gà concentrata da un'altra parte.
E sono tornata nel mio ufficio, a mezzogiorno: mi sono cambiata come i supereroi dentro la cabina del telefono. Entrata in tailleur, uscita in assetto da battaglia.
Incontro la Martina 80 chilometri più in là: anche lei in assetto da battaglia. Anche lei reduce dalla trasformazione, perché è appena uscita da scuola.
La strada verso Mira è irta di ostacoli: arriviamo che la Zangirolami è già sul campo, che ci guarda arrivare, con in mano un pallone. Orco cane: subito sotto lo sguardo severo del Capitano, tirata in nero austero e implacabile!
Il benvenuto sul campo lo do con un esercizio coi colpitori. Sono ben presente con la testa: sono ben piantata sui miei tacchetti. Sono carica, e piena di buona volontà.
Ma l'urto mi scaglia tre metri indietro, con le gambe per aria.
Campanellini in testa.
La ragazza mora mi domanda, angelica: "Tutto bene? Ti ho fatto male?". Mi rialzo con fare indifferente. No, no, tutto a posto. E che sarà mai?! (Ma pork*#ç@...)
Prego le mie due gambe, prego che mi portino fino alla fine.
Solo per stavolta, vi supplico. E domani festa grande per tutte e due, con massaggi all'olio di cocco e se fate a modo, anche lo smalto sulle unghie dei piedi.
Le gambe si fanno blandire, e rispondono che è una meraviglia.
Il preparatore atletico somiglia al mio insegnante di musica delle medie. Chiusa parentesi, perché credo che sia stato l'ultimo pensiero con un buon margine di definizione in tutto l'arco dell'allenamento. Si lavora sulla velocità differenziata: "C'è da lavorare sulla corsa, vedo...".
Scatti, cambi direzione, andature.
Il sole sparisce dietro le tribune dello stadio di Mira, ma l'aria è ancora dolce: sanno essere così solo certe graziose serate verso la metà di marzo.
Arriva la Tonna, con un foglio in mano. Sa i nostri nomi, sa i nostri ruoli. Mi piazza apertura. Fuori il paradenti dal calzettone: ora sì che c'è la prova del nove. Mi vedo arrivare di fronte la Flavia Severin: prima era di fianco a me, nell'esercizio sui passaggi, e sorrideva tanto, strizzando gli occhi, di gusto. Ora, in veste di antagonista, e lanciata di corsa nella mia direzione opposta, come un camion biondo, riconosco che ha perso gran parte del fascino che aveva esercitato su di me appena prima.
Gli urti sono anestetizzati da un'adrenalina pazzesca. Corro, corro, come una trottola. E non so mai se mi trovo al punto giusto. La mediana di mischia, che si chiama Gaia, mi fa spostare di continuo. La sto facendo impazzire. E come se non bastasse, sul campo ci sono anche i tecnici, che ci spostano: vogliono creare buchi, apposta. Così testano se, dall'altra parte, i buchi li sanno riconoscere. Mi fa un po' sorridere pensare che ci sia bisogno di una persona apposta per farci stare nel posto sbagliato, ma sorvolo.. Gli spazi sono molto più dilatati, rispetto a quelli a cui sono abituata. Non finirò mai di stupirmi sulla differenza di percezione di un campo da gioco: una campo da gioco, da dentro, sembra 10 volte più grande rispetto che lo stesso campo visto da fuori. E figurarsi se una come me si mette a giocare a campo intero, dopo che tutte le partite a sette le ha fatte col campo a metà!
Il tempo, invece, sembra più ristretto.
Quaranta minuti.
Fine primo tempo..
EH?!
Mi metto a bordo campo.
Vedo che le bottiglie con i sali minerali sono già finite da un pezzo.
Ma l'acqua c'è ancora. Tanta acqua. Sono assetata come dispersa in mezzo al deserto..
Torna la Tonna, con lo stesso foglio di carta di prima, ma rimaneggiato, scribacchiato, pieno di frecce e fregi.
Mi guarda: "Mammi. Proviamo la seconda linea?".
E io, piena di gratitudine: "Sì.. Sì, molto volentieri!".
Nuovo segno sul foglio: "Ci avrei scommesso!".
Torno in campo, dall'altra parte. I riccioli della fatica mi cadono sulla fronte e sugli occhi.
Ho sempre avuto questa reazione: quando sono sotto sforzo, mi si arricciano i capelli. Vai a capire le meraviglie della natura! Va beh, altra parentesi chiusa, perché viene fischiata subito la prima mischia. Ci siamo.
Guardo la mia numero 4.
Spalla a spalla. La branco a piene mani.
Ci abbassiamo. Dentro la testa, su la fronte. Mi aggrappo alla cintura della pilona. Ricevo una sberla da dietro dalla terza. Oh, scusa! Su le chiappe. I comandi chiamati da un punto che mi sembra lontano lontano. Ma è solo colpa delle orecchie coperte. E poi l'esplosione.
Non so come spiegare la prima mischia.
La mia prima mischia l'ho fatta contro la nazionale femminile.
Non ho le parole a disposizione.
E' una lotteria vinta. E' una benedizione. Un regalo. Una gioia incontenibile.
E' la vita. Tutto per avere quel peso sulle spalle. Sulla schiena. Da tutte le parti. 360° di energia allo stato puro.
E quante ce ne sono state, di mischie, dopo? Non abbastanza. Tutte le volte che l'arbitro faceva quel segno con le mani a capannina, mi saltava fuori un gridolino di esaltazione.
Fino alla fine.
Fino al momento in cui ho visto, dal di dentro, il cerchio azzurro.
Erano loro che ringraziavano noi: incredibile. Io che mi sentivo come una imbucata ad una festa, e loro che ci ringraziavano. Io che guardavo tutte le facce ad una ad una, per non dimenticare.
Poi è cominciata la bolla d'aria.
Nello spogliatoio vedevo la gente che passava davanti. Ed io me ne stavo lì, inebetita, sulla panca. Incapace di dare un qualsiasi comando di movimento a tutto il corpo. Ho voluto fare un giro sul campo, prima di andare via.
Il campo che due giorni dopo sarebbe stato testimone della prima vittoria italiana femminile al 6 Nazioni. Quel campo che ha assorbito le mie lacrime di gioia e, due giorni dopo, quelle di tutte le azzurre, vittoriose sulla Scozia.
E il sapore di tutto questo qual'è?
Un hamburger.
Sulla strada del ritorno.
Sì, lo so: non ho dimenticato tutto il pistolotto di Super Size Me.
Ma ero in macchina con una diciottenne.
Ero contenta, lei era contenta, e avrei fatto qualsiasi cosa per renderla ancora più contenta.
Anche prenderle quell'assurda coroncina da portare mentre si mangia.
Anche sporcarmi le mani con quell'odore persistente e dolciastro.
Perché in quel momento, avrei mangiato anche un mattone, e mi sarebbe sembrato anche buono.
Ci siamo prese due ore solo per noi.
Nessuna telefonata a casa.
Niente di niente, a parte quell'hamburger.
Che tanto, per quanto mi riguarda, saremmo uscite fuori dalla bolla anche troppo presto!

10 marzo, 2008

BEST OF...


Tigelle, lardo, salumi assortiti, salsicce all’ubriaca, la Gabana, le rose del deserto, la torta al cioccolato, il Salice Salentino, il mirtillino: il meglio della tavola di questo fine settimana.
Per le persone, invece, il meglio è venuto fuori ben oltre la tavola.
E’ mattino presto, quando l’aria si comincia a schiarire, quando le altre persone scendono dai letti caldi per ricominciare una nuova giornata, mentre tutti i sensi intorpiditi dalla troppa veglia chiedono tregua.
Ci sono stati tanti momenti da ricordare prima.
Ma continuerai a richiamare alla mente con precisione quel momento. Il tavolo sparso di bicchieri vuoti. Le parole che trovano la strada tra il silenzio, come avvolte da una coperta.
Il Gigante che riemerge dal sonno solo per un istante, solo per assicurarsi che tu sia lì.
Ti ritrovi sul divano, da sola, con un libro tra le mani che è arrivato dall’altra parte degli Appennini. “Le leggi del gioco ti dicono ciò che non devi fare. E’ solo la tua immaginazione, invece, a limitare quello che puoi fare”. Immaginazione.
Sapere che tutto ciò che desideri si può avverare, anche le congiunture più improbabili.
I tuoi amici hanno scoperto una cosa inaspettata di te: tu che dai le ricette, e che dovresti avere un’idea piuttosto precisa delle proporzioni e degli accostamenti, in realtà, non cucini mai lo stesso piatto due volte in maniera uguale.
Così come ogni partita è diversa.
Succedono cose mai successe prima.
Le buone leggi sono quelle flessibili per poter affrontare gli eventi imprevisti. “Le leggi devono comprendere eventi che i legislatori non potrebbero mai aver immaginato”.
Hai una notizia nel cuore da tutto il fine settimana, e non hai detto nulla a tutti i tuoi amici, per paura che solo a nominarla si possa dissolvere, come un sogno dopo che ti sarai svegliata.
Tutto può succedere.


Per le mie sorelline: buon compleanno, e che sia il primo di una lunga serie di compleanni insieme.
Per la mia amica alta alta e mora, che fare paciughi è l’essenza stessa della vita: tutti ci possono dire cosa non dobbiamo fare, ma l’immaginazione, a volte, ripaga ampiamente di tutti i buoni consigli ricevuti.
Per la mia amica alta alta dai capelli rosa: è iniziato un lungo cammino, e non ho nessuna intenzione di sapere dove ci conduca. Mi godo il tragitto.
Per il mio amico che era dove avrebbe voluto essere ma non dove sarebbe dovuto essere: ti abbiamo tenuto con noi anche dopo che eri partito. La tua cravatta al collo di un orsacchiotto che si è preso le coccole di tutti, anche quelle del Gigante, durante la partita contro la Francia.

Mi mancate.

06 marzo, 2008

UNA STRANA TAVOLATA


E' raro trovare delle buone forchette tra gli indie rockers.
Spesso sono così, curvi, magri e tormentati.
Alla mia destra, il mio migliore amico indie-rocker: Giancarlo Frigieri, che passa la cena a infilare coltelli dentro le birre medie.
Chiosa, arrotolando le erre con fare cattedratico: "Prendi due birre: una la spini velocemente, tenedo il bicchiere inclinato, con un sospetto di schiuma in cima. E l'altra la spini come si deve, in sette minuti, col cappello di schiuma e tutto il resto. Il cretino ti dirà: - Ma guarda quanta schiuma! Io voglio bere la birra, non voglio bere la schiuma!! - Tu gli dai la birra, fai un brindisi e gli pianti un coltello dentro il bicchiere, con un colpo secco.. La birra traboccherà dal bicchiere, in un mare di schiuma. E tu gli puoi dire, al cretino: - Ecco, te che non volevi bere la schiuma! Questa è la schiuma che avresti bevuto! -".
Alla destra di Giancarlo Frigieri c'è il Gigante, e parlano fitti fitti, come due compagni di banco alle elementari.
Alla destra del Gigante ci sono un terzo di Le Man Avec Les Lunettes, bresciani. Il cantante prende una pizza tonno e cipolla, roba da fondere il microfono alla prima strofa della prima canzone.
Alla destra di un terzo di Le Man Avec Les Lunettes ci sono gli Artemoltobuffa, venexiani; lui Alberto Muffato (toh, un anagramma) arrossisce quando gli riferisco i complimenti per una sua canzone, "Un lento di due o tre accordi, del genere che subito ti ricordi", l'altro più paffuto e cordiale, ma si schermisce di continuo: "No, no, lui è quello che sa parlare..". E si prendono un sacco in giro, perché Alberto ha rotto lo sportello della macchina, lasciandolo aperto e uscendo da un parcheggio in retromarcia.
Alla destra di Artemoltobuffa c'è Dente.
Usa i capelli per nascondersi dagli interlocutori. Tira fuori i coriandoli dalla chitarra e me li lancia dietro, a tradimento. Si mette in posa da modello quando gli fanno le fotografie. E' talmente sottile che un abbraccio lo farebbe sbriciolare tra le mani.
"Ma che begli occhi che hai. Chissà come mi vedi bene!..".
Non mangia molto. Ma beve, nervosamente.
Alla destra di Dente ci sono gli altri due terzi di Le Man Avec Les Lunettes, tra cui le due ragazze. Lei è portoghese, ricciola, bellissima, e suona la viola. Prende un'insalata di carote, e non le portano l'aceto balsamico. Mi viene da fare ammenda. Mi alzo. Le cerco l'aceto balsamico, quasi a fare gli onori di casa.
Rimedio un aceto tristo, di quello liquido liquido, che non si aggrappa alle pareti della bottiglia di vetro. Meglio di niente, tuttavia.
Alla destra di Les Man Avec Les Lunettes ci sono io, con i miei tortellini in brodo.
Brodo di dado, con alcuni scampoli di pomodoro (!!!) che galleggiano perplessi.
Non li finisco neanche.
Mi godo la tavolata più strana dell'anno, fino ad ora.

03 marzo, 2008

SALSICCIA ALL'UBRIACA


Non ci si può mettere a cucinare con la fretta addosso: tutto quello che ne verrà fuori avrà un sapore di pressappoco. Bisogna cucinare con pazienza, e aspettare che evapori un'intera bottiglia di Bardolino per mezzo chilo di salsiccia. Le salsicce non devono essere troppo grasse, e macinate abbastanza finemente. Le si deve incidere per il lungo: dentro ci va messo uno spicchio di aglio, avvolto in una foglia di salvia. Legate la salsicce con il fagottino dentro, ci si può dedicare al sughetto: il vino va fatto bollire, molto lentamente, con un paio di foglie di alloro (che però vanno fatte sparire quasi subito), olive nere e capperi. Le salsicce sono da mettere dentro la casseruola già ad ebollizione in corso, avendo cura che subito siano coperte completamente dal vino. Non salare: ci pensano le olive e i capperi, a rilasciare sapidità. Poi il vino si rapprenderà, il sughetto diventerà sempre più denso, e occhio a non far attaccare tutto: ci vuole una cura pazzesca per tenere dietro a questo piatto. Ci vuole pazienza e non ci si può distrarre, andare in giro per la casa, parlare al telefono.
Ci vuole pazienza.
Per un piatto che richiede circa due ore di preparazione e 10 minuti per mangiarlo. Con scarpetta. E il Gigante che ancora a bocca piena mi chiede: "Ce n'è ancora?". Come si fa a spiegare il valore del tempo, e la dedizione?
Mi ricorda tanto "Dolce come il cioccolato", un libro di Laura Esquivel (tutto questo blog, peraltro, somiglia a quel libro: il sottotitolo recita così "Romanzo a puntate mensili con ricette, amori e rimedi casalinghi"): la protagonista della storia, Tita, aveva in serbo una ricetta sorprendente. Le quaglie ai petali di rose. Preparate con delle rose regalate da Pedro, e bagnate con una goccia del suo sangue appassionato uscita casualmente per una puntura delle spine, hanno il potere di scatenare in tutti i commensali una frenesia d'amore tale da far surriscaldare la pelle.
Due carampane acide, che non hanno capito nulla di quello che stavano mangiando, domandano a Tita la ricetta. Lei spiega la preparazione, ma aggiunge, alla fine, che non serve a nulla cucinare, se non lo si fa con amore. E le due carampane ringraziano, sorridono e la guardano mentre si allontana lasciando dietro una scia di felicità. Poi si voltano a bisbigliare, cattive: "Come no?! E io il mio amore lo spreco proprio per queste cose qui..".
Non bisognerebbe mai perdere la gioia di riempire una valigia di dischi prima di una serata.
Mai dimenticarsi di dare un bacio prima di addormentarsi, e far scivolare un "Buonanotte" nel buio.
Attaccare alla parete quella fotografia scattata già da mesi, per cui era già stata comprata la cornice.
Girare la macchina fuori dal percorso consueto, e ritagliare 10 minuti per la nonna.
C'è una frase, prima del libro, dove di solito si mettono le dediche: "A tavola e nell'alcova si invita una volta sola".