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Spezzano, Modena, Italy
Inguaribilmente energetica, e contagiosa.

17 luglio, 2008

SO LONG, AND THANKS FOR ALL THE FISH



 
Lo tzatziki (τζατζίκι) è una salsa usata per lo più come antipasto, o come accompagnamento alla carne degli spiedini "souvlaki". Memorie di innumerevoli viaggi in Grecia, di case bianche di calce sotto un cielo smaltato d'azzurro, di colate nere di vulcano che si placano nelle acque cristalline, di visi rugosi di sole, di polvere, di pomodori e basilico, di musiche ridondanti e contagiose.

E me ne trovo una ciotola qui, nel cuore di Milano. Non uno tzatziki industriale, di quelli che puoi assaggiare in qualsiasi kebeb del mondo.. ma proprio uno tzatziki come si deve, con la menta fresca.

Beh, prima della menta, serve lo yoghurt: ma non quello triste e compero, da supermercato. Un bello yoghurt ricco e consistente (fosse di pecora o capra, sarebbe ancora meglio)! E un cetriolo, da sgrattugiare grossolanamente, e da mettere poi ad asciugare in un panno, per togliere più acqua possibile. A parte va frullato l'aglio, in modo da ottenere una purea omogenea. La quantità, di aglio, dipende molto dai gusti: io tendo ad esagerare, perché adoro il friccichio sul palato, al primo boccone di bruschetta affogata nello tzatziki. E non dimentichiamo che è un toccasana, per la salute e la bellezza. Se temete ritorsioni dal punto di vista sociale, nessun problema: basta far mangiare tzatziki anche al bersaglio delle vostre effusioni!

Abbiamo lasciato lo yoghurt da parte: ora che il cetriolo sarà pronto (dopo circa un'oretta), mescolare yoghurt, cetriolo e purea d'aglio, con una frusta, ed aggiungere, alla fine, un cucchiaio di olio d'oliva ed erbette a piacere. La menta, appunto, ma anche finocchio, cumino, anice, aneto..

Servire con pane tostato, di quello bello poroso, che raccolga lo tzatziki in ogni anfratto, con due ciotole appaiate: in una lo tzatziki, e nell'altra olive nere..

Il ristorante si chiama "Tempio d'Oro". Sottotitolo: "tutto fuorché un luogo di culto".

Fino a due ore prima me ne stavo lì, nel mio ufficio, senza aver idea di cosa fare della serata incombente. E poi ho pensato la cosa più semplice del mondo: avevo voglia di vedere la Robbb.

E due ore dopo ero là.

Io che mi perdo anche in casa, e sbaglio a prendere l'uscita in autostrada a Modena Nord.

Con quella macchinina ovale che si parcheggia con un calcio piazzato.

Io che lascio serenamente il frontalino dello stereo insierito, in bella vista, in mezzo ad una marea di spacciatori..

E che sarà mai!

La Robbb.

Che bello vederla..

Mi sarei mangiata le mani, a farla andare via da Milano senza salutarla.

E il nostro arrivederci ha il sapore etnico di un piatto di manzo speziato, e dello tzatziki.

E delle chiacchiere leggere di una serata tra amiche con Nero d'Avola.


Ti vorrei dire bene come sia stato bello trovarti.
E di quante cose belle tu abbia portato nella mia vita.
Anche se in poco tempo.
Ma poi penso: perché crucciarsi?
Abbiamo appena cominciato.
Siamo solo all'antipasto: allo tzatziki.
Fai buon viaggio.
So long, and thanks for all the fish.

14 luglio, 2008

KLAATU BARADA NIKT... coff coff coff!


Mi sveglio ancora di notte, pensando di aver sentito quel campanello.
E' il "DLIN!" che faceva la Giuliana dalla cucina, quando aveva finito di preparare un piatto e io lo dovevo servire in uno dei tavoli del Giardino dei Tigli, a San Venanzio.
Il movimento automatico di partire a comando verso la cucina, al suono del campanello, mi si è insidiato in maniera talmente profonda nel cervello, che sobbalzo anche oggi, quando il campanello risuona dall'interno del locale.
Ero giovane, molto giovane.
Ero l'unica cameriera del locale che poteva usufruire di una deroga al rigido codice di abbigliamento: niente camicia bianca/pantalone nero, per me. Anche perché la camicia bianca sarebbe stata un aperto invito alla patacca: purtroppo, la buona manualità nel servire ai tavoli non era certo il mio forte.. mi salvavo con la presenza di spirito e la conversazione. L'unico segno distintivo che mi individuava come "cameriera" era un vezzoso grembiulino coi bordi di uncinetto. Con tasca anteriore per infilare cavatappi e tappi cavati.
Il Giardino dei Tigli si trova in un'ampia curva della strada che porta all'Abetone. Alla domenica a mezzogiorno ci passano più moto che macchine. Ed è bello vedere come i vari motai affrontano l'ampia voluta d'asfalto: con sicurezza, con la perfezione della curva che deriva da un occhio esperto, o con tanti ritocchi alla traiettoria, piccole aggiustature che non sfuggono ai puristi della guida su due ruote.
Pare che un filo invisibile leghi il rugby e la moto: una volta passione per pochi devoti. Ora, invece, mira di molti nuovi adepti dell'ultima ora, non sempre ben visti ed accettati dai vecchi lupi dell'asfalto/del campo da gioco.
Una piccola piega di disprezzo nella bocca, alla vista di un particolare magari insignificante: per i motai è il calzino corto, che lascia scoperta la caviglia, o peggio, la manica corta! Perché il pensiero va subito al calabrone che si schianta sulla pelle nuda, che acquisisce la consistenza di un proiettile, mano a mano che aumentano i chilometri orari. O il pensiero inevitabile di una sfregatina accidentale della pelle sull'asfalto.
Per i rebbisti è il contrario: l'eccesso di protezione. Quelle imbottiture che fanno tanto spalline dei cantanti negli anni '80. Come se il fatto di non sentire lo schianto delle carni sulle carni, e le carni sulle ossa, mettesse a repentaglio una buona percentuale di godimento o sensibilità di gioco. Io so solo che alla fine di certe partite ho le spalle a pois per gli ematomi, per le punte apparentemente innocue di queste protezioni. In pratica: l'effetto della protezione è uguale a quello dell'urto puro e semplice. Solo un po' più artificiale: dunque, come giustamente intuito dai vecchi rebbisti, perché mettersele?
Arrivati al Giardino dei Tigli, vedo subito il tavolo dove il cameriere ci sistemerà a sedere: ce ne sono diversi, di tavoli liberi. Ma ho ancora lo sguardo clinico del cameriere: quello che sorvola la distesa di teste masticanti, ed individua quello più comodo per lui, facile da raggiungere, da sparecchiare, da tenere sotto controllo.
Diamo un piccolo aiuto incoraggiante al cameriere: tirando il coprimacchia, in modo che non faccia le pieghe appena disteso sulla tavola. Sollevando il numero del tavolo (il n. 84! Ommamma, che domenica difficile...), per facilitare le operazioni di insediamento. Sorridendo, e mostrando di non avere per niente fretta: cosa che è anche vera, tra l'altro.
Sono piccoli gesti, ma ben apprezzati da chi li riceve.
Mica come quei cafoni che arrivano dopo di noi, che non hanno prenotato, e pretendono di spadroneggiare mentre intorno infuria la battaglia delle 13.30, quando tutti hanno ordinato e tutti intendono mangiare il prima possibile.
Ennio sbuffa infastidito: "Non capisco che soddisfazione ci sia a trattare male i camerieri!".
Gli sorrido, colma di gratitudine per la categoria.
E lo ripago con una mangiata clamorosa, il florilegio di un menù che conosco alla perfezione, come la tasca del mio grembiule colmo di tappi di sughero.
Grana con aceto balsamico.
Tortellini al tartufo.
Mezzelune saporite con carciofi, ricotta e pecorino.
Gnocco fritto e salumi.
Arrosticini.
E il Prà di Bosso.
Ricordo nitido di me al tavolo, con taccuino e penna in mano, pronta a ricevere l'ordinazione.
La coppia ordina il Prà di Bosso.
Io sorrido di sottecchi.
Perché la maggior parte delle coppie che ordina il Prà di Bosso non lo finisce mai.
Soprattutto se lei si affretta a richiedere, dopo la bottiglia di vino, una bottiglia di acqua frizzante.
Io aspetto.
Controllo di livello della bottiglia di Prà di Bosso, durante il pasto della coppia.
Servo i caffè, e la bottiglia, dopo che hanno pagato il conto, diventa di mia proprietà.
Tutti in cucina lo sanno.
"Le bottiglie di Prà di Bosso sono della Lara".
Alla fine della serata, quando i piedi hanno la temperatura e la consistenza delle salsicce alla griglia, per i chilometri percorsi tra i tavoli, mi siedo al tavolo, vicino alla porta della cucina: tutti i residui delle bottiglie di Prà di Bosso sono diventate la caraffa del MIO pasto serale, il premio meritato del guerriero che sopravvive alla battaglia.
E stavolta, però, in questa bella domenica di luglio, sulle colline modenesi, la bottiglia è intera, e mi dispiace per la cameriera di turno: ma dalla tavola mia e di Ennio non tornerà indietro un residuo di lambrusco. Sarà per un altro tavolo..

07 luglio, 2008

CASA


 

A scuola ti insegnano la differenza tra "home" e "house".

In italiano, la differenza linguistica non c'è. Ma si sa; inconsapevolmente, ma si sa.

E' la differenza tra un tagliere annerito dalle passate di mezzaluna e un ripiano lindo e pinto dell'Ikea. E' la differenza tra il movimento particolare che devi far fare ad un cassetto, se no non si apre, e i cassetti ben separati con le posate da pesce, da olive e da fondue bourguignonne.

La poltrona di casa è coperta da un telo, ultimo baluardo umano ad una tracimanza di pelo di cane. Wales controlla il territorio. Ma la vera regina è lei.

La prima volta si è messa un po' di trucco: una matita per occhi azzurra, a sottolineare ulteriormente il colore cristallino delle iridi. Ora ha abbassato un po' le difese, ed apre le porte del cuore, oltre che quelle della cucina. E' una cucina di quelle che ti rimangono impresse per tante cose. Non è un odore particolare. Non è il particolare "rustico". E' tutto l'insieme: anni di barattoli, che mano a mano sono diventati inamovibili, pur se usurati. Come il coperchio slabbrato del contenitore dello zucchero. Come il colore sbiadito dalle innumerevoli forchettate della terrina dell'insalata, da cui si pesca abbondantemente tutti insieme, senza passare dal piatto. Come i cucchiai di legno consumati in punta.

I tovaglioli sono quelli di stoffa: nessuno più usa tovaglioli di stoffa. E invece sono lì, con i fiorelloni fuori moda e la stoffa ruvida. E la bottiglia di vino con il tappo richiudibile, che si riempie una volta ogni qualche giorno.

Una donna in una casa di uomini.

Una donna amatissima.

Una donna che richiama le sue amiche a prendere il caffè pomeridiano in una moka capiente, e sono chiacchiere fitte fitte, delle figlie delle amiche che si sposano, delle cose che succedono al paese, delle notizie che arrivano fin da Trieste.

Una donna che, alla fine della giornata, si concede un sonno leggero sulla poltrona, aspettando che tutti rientrino a casa. Mi commuovo un poco, vedendo gli abbracci dei figli a questa donna.

E vedendo come si preoccupa che tutti abbiano abbastanza da mangiare, o che siano soddisfatti.

Una omelette col marsala, spalmata di nutella.

Un'altro cannellone, con ripieno di formaggio e prosciutto. O preferisci quelli con gli spinaci, e il gorgonzola? E le patate fritte.. badate bene di mangiarle calde, che son più buone. Ve le friggo man mano, d'accordo? E lo vuoi un po' di pomo, per finire? Anzi, non lo chiede neanche: pela il pomo, toglie il torsolo, e lo taglia a spicchi, allungandolo già pronto da mangiare.

Me ne sto buona buona, un po' silenziosa, per non disturbare questa atmosfera così quotidiana: anche solo aprire bocca, è come spezzare un ritmo, perché la mia parlata è troppo differente. Perché il mio accento invadente non turbi troppo queste consuetudini.

Già questa tavola è un balsamo, per me.

Che di case ne ho cambiate così tante, e che non mi sento in casa in nessun posto.

Guardo con speranza alle pareti nude su in Calvanella: la mia prossima casa.

La conosco già, ogni parete, ogni piastrella, ogni scorcio dalle finestre.

Ricordi di infanzia, ed un'atmosfera familiare tanto simile a quella della tavola di qui sopra.

E' passato molto tempo, e tocca a me ricostruire tutto quanto.

E una buona cucina da usurare credo che sia già un ottimo punto di partenza.