Quel
venerdì, mi sono svegliata con l'assoluta certezza che stava
cominciando.
Non
so spiegare per quale motivo: erano giorni che mi ascoltavo,
analizzavo, scrutavo, per capire i segnali del mio corpo. E non
succedeva nulla, mentre intorno tutti quanti mi chiedevano se stava
succedendo qualcosa. Invece, quel venerdì, mi sono svegliata sapendo che stava cominciando.
Ero
molto tranquilla, apparentemente, e lucida. Mi sono incaponita sul
pensiero che mi dovevo depilare, e l'ho fatto. Poi ho svegliato
l'Omone, con assoluta calma e leggerezza. A metà strada verso
l'ospedale la metamorfosi era già avvenuta, e lanciavo terribili
anatemi agli automobilisti che ci precedevano troppo lentamente,
augurandomi che si incenerissero, o che incappassero in qualche
catastrofe biblica: e l'Omone pareva un po' scombussolato da questa
perdita di controllo. Ma, per non sbagliare, guidava in maniera
sempre più sportiva. Non ho varcato la porta del pronto soccorso
sulle mie gambe: mi ha portato di peso l'Omone. In reparto non mi
hanno fatto fare attesa: bastava guardarmi in faccia. E sono entrata
in sala parto.
La
stanza si chiamava 'Sala Venere'. Un nome molto rassicurante, come
l'ambiente al suo interno: luce soffusa. Ordine e pulito. Le sale
parto non serbano traccia di tutto il dolore che vi transita, così
come gli occhi delle ostetriche. Fausta mi prende quando sono già
fuori di me. E' molto delicata, ma anche energica, e categorica. Mi
dice: “Non spingere. Non ancora. Lascia che sia lui, a trovare la
strada: tu dovrai lavorare dopo!”. Ma è più forte di me. La
contrazione è preceduta da un'ondata, e so che non potrò fare nulla
per influire in qualche modo sul suo percorso.
Non
so se ci siano parole giuste, per descrivere un parto. Anzi, so
proprio che non ce ne sono: tutto ciò che ricordo, e che trascrivo,
non può che essere un'incerta approssimazione. Perché non si può
avere la coscienza della parola, quando si perde anche la percezione
di sé.
Vedo
attorno a me le sagome di quelli che si avvicendano, occupandosi del
mio travaglio. Cinzia, con i suoi occhi chiari, ed i bastoncini di
incenso. Matteo, che tenta di arginare il dolore con l'agopuntura. E
l'Omone. Sempre lì, sempre al mio fianco. Che sia spossato sul
pavimento del bagno, che sia con le mani sulla mia schiena, per
scaldare il fulcro del male che si intensifica, o impotente sulla
poltrona, guardando questa tempesta che mi sta sconquassando dal di
dentro. E la Sala Venere non è più così ovattata: diventa sangue,
feci, umori, e urla. Urla, per portare all'esterno un dolore che non
può avere un suono. Urla che sente anche mia madre, da fuori: quale
pena più forte ci può essere di una madre che sente la figlia
vivere quello che già in prima persona ha passato per metterla al
mondo?
Poi
il silenzio. Ma non è il silenzio della pace. E' il silenzio della
battaglia che si concentra tutta all'interno: è peggio, perché non
si capisce cosa stia succedendo. Io sono aggrappata con entrambe le
mie mani, ma anche con tutta la forza che vado a pescare nei meandri
della mia volontà: incanalo tutto quello che ho a disposizione, in
quei pochi centimetri, ma non è mai abbastanza. Sono una serie di
bordate tremende, ravvicinate che mi lasciano incredula, a bocca
spalancata, e con gli occhi interrogativi verso tutti. Nelle pause
chiudo gli occhi, pare anche che riesca ad addormentarmi. Sussurro
all'Omone che lo amo. Tanto. E vedo che la gente davanti a me
aumenta, accendono una luce verso l'interno delle mie gambe: ora
somiglia più ad un ospedale, più di prima.
Sento
PRECISAMENTE l'attimo in cui prima la pancia era piena, poi non era
più piena.
Sento
un singulto, e un pianto. Sento lui.
La
gente continua ad affannarsi attorno a me, ma io non me ne curo. Il
dolore non passa, ma non sono più ondate che mi travolgono: il
dolore mi trapassa, come se fossi trasparente. Arriva la dottoressa,
e ha un bozzolo di lenzuola tra le mani e me lo appoggia sul petto
ancora nudo. Io abbasso con un dito la stoffa. Vedo un viso pieno di
pieghe. Vedo una mano. Avvicino il dito, e la mano afferra il mio
dito.
Ecco.
In
quel momento, invece, ho l'assoluta certezza che la mia vita, da ora
in poi, sarà tutta per lui.
E
il dolore ha lasciato il mio corpo. O invece era l'anestesia. Non
saprei: so che il bozzolo, dopo, è passato in braccio all'Omone, e
sembrava perdersi nello spazio di quel petto enorme. E li ho amati,
ancora di più: la versione maiuscola, e la versione minuscola. Che sapore ha, tutto questo?
Il sapore del latte.
Latte che arriva da me. Da tutto il casino che è successo in quella sala parto, e che dopo è stato richiuso, dimenticato, ripulito; da sensazioni buone e belle e care.
Sigillato con quella stretta del mio dito, che ha portato via tutto quello che ho vissuto fino a questo momento. E' nato lui. E sono nata, ancora, anche io.