La radio è diversa da tutto il resto, perché occorre immaginare.
Immaginare che ci siano le pareti foderate dalle copertine dei dischi, dal pavimento fino al soffitto.
Immaginare una ragazzina di vent'anni, con i capelli tagliati corti sulla fronte, e gli occhi sempre in movimento.
Immaginare una maglietta consumata di un concerto lontano, di un gruppo amato e sconosciuto.
Immaginare un microfono sospeso su una postazione comandi, come la plancia di una nave.
Immaginare l'odore di fumo e sudore, stratificato dagli anni.
Immaginare di isolare il resto del mondo, quando si infilano le cuffie, e provare la voce, per sentire come sarà sentita tra pochi secondi.
Immaginare l'adrenalina che corre, tutte le volte, mai uguale a quella dell'altra volta.
Immaginare tutte le persone dall'altra parte, collegate da una traccia invisibile, eppure sparpagliate in ogni angolo di paese, in macchina, a casa, in ogni dove.
Immaginare che tutto questo è solo immaginato, e non conta niente per tutte le persone dall'altra parte: conta solo per una ragazzina, che in quel momento soffia via i capelli dalla fronte, prende a due mani la plancia di comando, dà l'ultimo sguardo al tempo rimanente che scorre sul display.
Immaginare la fine del pezzo, l'istante di silenzio.
Immaginare una sigla.
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